Lo spettatore #280- Sunday, Monday nasty days: Suburbicon (2017)

Le zone residenziali con le villette e i giardinetti col vialetto, il canetto con la cuccetta, il ragazzetto che taglia l’erbetta e la macchinetta parcheggiata fuori dal garagetto, sono luoghi dove regna l’ipocrisia del ceto medio borghese, all’apparenza tutto perfettino ed educato, ma sotto sotto zeppo di sentimenti d’odio, pronto a sterminare l’intera popolazione, forse anche il vicino di casa, che è tanto caro ma respira e quindi infastidisce. Non lo sapevate? Strano, perché Hollywood ce lo racconta da un secolo.

Il regista George Clooney è uno di quelli che ci tiene a dirigere sempre la storia giusta, dal vago sapore scandaloso, ma comunque educata, pulita e formale. Stavolta mette in scena la sceneggiatura scritta assieme ai fratelli Cohen e a Grant Heslov, che ha dalla sua il tono noir prediletto da Joel e Ethan e insieme la critica sociale manifesta, di modo che proprio nessuno possa fraintendere le intenzioni del progetto.
Se Giorgione avesse nelle corde uno spirito davvero rivoluzionario, però, potrebbe giocarsi le sue carte in modo molto più aggressivo, perché il fatto che le disgrazie a Suburbicon coincidano con l’arrivo in paese della famiglia di neri e la possibilità di disporre del rassicurante Matt Damon nel ruolo di severo ma giusto padre di famiglia americano anni 50, sarebbero strumenti utili a sconquassare la narrazione. Solo che il nostro non riesce a liberarsi dalla sindrome del piacione, nemmeno quando non appare in scena.
Perché, pur se piuttosto trito come argomento, il disfacimento della cultura da Happy Days può ancora smuovere le coscienze. Il punto, come sempre, è che a contare è il come, non il cosa.
Clooney mette giù la sua opera con l’idea di non sbagliare il colpo. Lo scopo sembra quello di assicurarsi la posizione senza mai osare e il risultato è un film piatto, cosa quasi eccezionale dato il calderone di argomenti in campo. Forse il problema della narrazione è quello di mostrare tutto in superficie, senza tenersi qualche asso nella manica da estrarre al momento opportuno. La storia in sé avrebbe le carte in regola per essere dura, sporca, forse persino cruda. Ma Clooney non le infonde movimento evitando di mettere dubbi a uno spettatore che non ha nulla da interpretare.
Se a un certo punto non fosse arrivato Oscar Isaac a portare un poco di brio con un personaggio un filo mosso, avrei rischiato di appisolarmi, dico davvero.
Se da un lato, quindi, l’aspetto noir della pellicola esce depotenziato dal fatto che tutto è piuttosto chiaro fin dal principio e di conseguenza anche la potenziale critica sociale si sgonfia, quando passiamo all’accusa più esplicita, quella di razzismo, le cose si fanno anche meno appassionanti.

Le aggressioni ai danni dei neri le avevo già viste rappresentate al cinema e quando si tratta di argomenti sentiti sanno fare davvero male all’anima, pur sfruttando analoghi generi letterari. Qui la situazione è posta come una recita. Forse solo nel momento della rivolta si può percepire parte della pericolosità della situazione che stanno vivendo i nuovi arrivati, ma è un istante. Il resto è una semplice caricatura che però nemmeno ridicolizza certi atteggiamenti. Clooney vuole raccontare alcuni aspetti della segregazione, ma rifiuta di affondare le mani nella melma e anche qui rimane tutto in superfice, a far da sfondo a quello che è il nucleo narrativo del progetto, ma con scarsa interazione.
Insomma, Giorgione nostro parla di questioni scottanti con la profondità di un politico sui social, evitando di mollare lo schiaffo definitivo allo spettatore, quello che mi avrebbe fatto dire che si, Suburbicon è qualcosa di più di un film furbo che prova ad accarezzare le corde giuste.
Peccato, forse un'occasione sprecata.

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