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Iuri legge per voi: La Chiave Di Vetro (The Glass Key, 1930) di Dashiell Hammett

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  Ned Beaumont non è un investigatore come tutti gli altri. Nel noir i protagonisti sono uomini consumati, sciolti dall'esistenza, talvolta rassegnati, che prendono cazzotti ma che spesso li restituiscono, uomini travolti da eventi dei quali perdono il controllo, però anche astuti, capaci di districrasi tra quei dedali piovosi o pregni di afa dove convivono reietti, sangue, fumo, alcol e donne fatali. Potremmo definirli professionisti dell'investigazione, che conoscono i rischi del mestiere e sanno scansare i peggiori. Ecco, il Beaumont creato da Dashell Hammet è un dilettante. Un tuttofare del boss politico locale che, quando la situazione si scalda, sembra rassegnato alla sconfitta. Un problema personale gli porta in dote un distintivo, quel distintivo lo costringe a mettersi a sbrigare un lavoro per il quale non è preparato e nemmeno l'amicizia con il grande capo gli sarà di aiuto. Anzi, produrrà nuovi grattacapi. Se Hammet fosse rimasto per tutto il romanzo con questo

Lo spettatore #220- Gli eroi di una volta: Il Colosso Di Rodi (1961)

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Credo che tra gli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso il peplum fosse il corrispettivo dei moderni film con i supereroi. Chiunque desiderasse guadagnarsi un po' di spazio nel mondo di celluloide doveva partecipare ad almeno una di queste pellicole. Infatti i post su Facebook risalenti a quegli anni sono un fiorire di: i miti greci hanno rovinato il cinema, non se ne può più di queste tuniche e di questi sandali, sono tutti uguali, visto uno visti tutti. Provate a cercare se non ci credete. Ovvio, non tutte le critiche degli internauti di metà novecento erano infondate, così come non lo sono quelle attuali. L'adattamento per il cinema dei miti biblici o grecoromani ha portato spesso a trame ingenue, nelle quali il romanzo rosa era una tassa da pagare più che un'esigenza narrativa e l'eroe dava l'idea di avere tutti gli astri dalla sua parte qualsiasi cosa facesse. Ma erano prodotti che funzionavano e, allora come oggi, le case di produzione mettono su pellico

Lo spettatore #219- La nostra prima volta: Nico (Above The Law, 1988)

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Che ci crediate o no, questa per me e Steven Seagal era la prima volta. Dovete infatti sapere (ma non è vero, non dovete proprio nulla, ricordatelo quando qualcuno ve lo dice) che i film picchiaduro non sono mai stati tra i miei simpatici. Quando vedevo quel faccione lì apparire sullo schermo, poi, la mia mano scattava con una velocità inattesa dal resto del corpo e cambiava canale senza che nemmeno tutti i pixel si fossero accesi. Mi sono così immaginato che il buon Seagal non fosse altro che uno di quegli omoni col sogno della recitazione finito in filmacci da pochi soldi girati senza la minima ambizione in est Europa. Invece no. É esistito un momento storico nel quale anche il colosso dal codino più nero che c'è ha avuto la sua occasione nelle parti nobili della collina. Oddio, forse Nico non può essere definito il gioiello più luccicante nel diadema di Hollywood, anche se la presenza di due calibri come Sharon Stone e Pam Grier farebbero pensare al contrario. La verità è che l

Lo spettatore #218- Matti in un mondo di matti: American Psycho (2000)

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Questo è uno di quei film che ho visto a breve distanza dalla sua uscita in sala e con il quale per anni ho vissuto un rapporto conflittuale. Insomma, a farvela breve non mi era piaciuto. Ma a oltre vent'anni di distanza e dopo aver letto il romanzo dal quale è stato tratto (due volte, e si sta scaldando a bordo campo per la terza), ho pensato fosse giunto il momento di dargli un'altra occasione. Anche perché più di qualcuno me ne ha parlato bene, quindi ci sta che io sia stato troppo frettoloso. So benissimo che è sbagliato mettere a diretto confronto un romanzo e il film che ne è stato tratto. Si tratta di linguaggi e di tempi diversi, di interpretazioni personali che si soffermano sui dettagli, perché catturare l'intera essenza della narrazione è semplicemente impossibile. Per di più American Psycho è un film corto, di quelli che facevano una volta, che ha un'ora e mezza da spendere e deve forzatamente scegliere qual è l'argomento più importante da sviscerare (

Lo spettatore #217: Un nuovo sistema penale: Ipersonnia (2022)

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Ci dev'essere qualcosa che non va con la fantascienza dalle nostre parti. Intendiamoci, è un bene che qualcuno decida di impegnarsi nel genere e riesca pure a muovere nomi di un certo calibro. Ma cribbio, ogni volta che termino una visione mi pare che manchi qualcosa. Nella distopia messa in piedi da Alberto Mascia si sceglie un futuro non troppo remoto nel quale la detenzione in carcere viene sostituita da un lungo sonno che occupa interamente il periodo della condanna, esclusi i piccoli risvegli che servono a verificare le condizioni del reo. Idea di base interessante, anche perché consente al regista di giocare con la vicenda, la quale, data la natura onirica della narrazione, permette qualche alleggerimento sul proprio rigore formale. Nulla che non si sia già visto, ma esiste l'intenzione di far sembrare tutto quello che vediamo come un cerchio che si chiude, mettendo in scena uno stratagemma narrativo che funziona sempre. Poi è chiaro, il film sbatte contro i propri limiti

Iuri legge per voi: Eymerich: Libro Uno (2019) di Valerio Evangelisti

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E' complicato immaginare un universo dove coesistono magia e scienza moderna. Un posto dove i sogni possono creare materia e dove per viaggiare nel cosmo basta concentrazione e qualche ritrovato tecnologico. Ma se un luogo così sembra troppo difficile da mettere insieme ci possiamo consolare: qualcuno l'ha già fatto per noi. Un po' fantascienza, un po' horror e un po' fantasy. Questa è la miscela di generi alla quale attinge Valerio Evangelisti per mettere in piedi la saga di Eymerich, autentico inquisitore trecentesco preso a immagine per costruire uno dei protagonisti più respingenti nella storia della letteratura. Eymerich è infatti convinto di battersi per la purezza del pensiero contro l'anarchia selvaggia dei culti alternativi. Per lui la Chiesa di Avignone conserva l'unica verità ed è disposto a qualsiasi atto pur di difenderla e se conoscete un poco la fama degli inquisitori certamente intuirete cosa intendo. Per di più l'uomo vive un contrasto

Special Five capitolo 2: le cover

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Bene, a quanto pare siamo giunti al secondo capitolo di questa rubrica desiderata da pochi e attesa da nessuno. Tanto per non smentire l'inutilità dell'operazione oggi prendiamo in esame 5 cover, che per alcuni sono il vero cancro della musica. Io sono tra quelli, tanto per essere chiari. Però va detto che certe reinterpretazioni suonano proprio bene. Non voglio dire meglio delle originali, ma chissà, qualcuno potrebbe anche pensarlo. Via! LOVE IS BLINDNESS Difficile immaginare un atmosfera musicale più distante da Jack White di quella creata dagli U2 di Acthung Baby. Eppure per la colonna sonora del Grande Gatsby di Baz Luhrmann il buon Jack sceglie proprio una canzone tratta da quel disco. Nella fattispecie (ma si capiva già dal titolo del paragrafo) parliamo di Love Is Blindness, un pezzo già parecchio interessante di suo, che qui viene portato a suonare come un blues da palude da una delle voci più graffianti del panorama. Vi giuro che se c'è una scena che ricordo di qu