Lo spettatore #244- Un caldo infernale: Adagio (2023)

Mi son fatto incantare da un trailer ed eccomi qui: alla fine ho visto Adagio e ho concluso che a volte è meglio non approfondire.

Intendiamoci, Adagio non è un brutto film, del resto con Stefano Sollima è difficile scendere dal marciapiede e mettere male il piede. Parliamo pur sempre di un regista competente, capace di attirare le attenzioni della collina e di realizzare opere con un certo carattere. Basterebbe vedere con quanta forza si percepisce la soffocante afa dell'estate romana per farsene un'idea, ma anche la resa visiva dell'incendio sullo sfondo, una sorta di squarcio sull'inferno che attende gli eroi tragici di questa vicenda.
Dal punto di vista visivo la pellicola fa il suo e anche se io odio i Subsonica, devo dire che la colonna sonora sostiene bene l'opera (seppure, stando al trailer, forse mi aspettavo qualcosa di più suggestivo).
Ma alla fine della visione mi sono trovato un po' così, quasi mi mancasse qualcosa.
Sollima sceglie il noir come indirizzo per orientare la storia. Una vicenda spesso notturna, con un'azione centellinata che parla di criminali di una volta, polizia corrotta e gioventù da preservare. Dal tizio che ha ideato lo sceneggiato Romanzo Criminale (uno dei pochi picchi della serialità italiana, modesto parere), tutto sommato argomentazioni che mi aspettavo. Forse persino troppo me le aspettavo, perché, ragionandoci su, sono arrivato alla conclusione che potrebbe essere il soggetto stesso a non avermi dilatato i ventricoli.
L'arco narrativo di tutti i personaggi sembra abbastanza ovvio fin dall'inizio, con il ragazzino smanioso di conquistare le attenzione del quasi padre, i tre reduci pronti all'ultimo grande ballo e degli antagonisti così figli dello stereotipo da sembrare la squadra di Vic Mackey persino esteticamente.
É tutto talmente evidente da rendere lo spettacolo di Sollima un quadro in movimento, abbastanza bello da vedere, ma con l'intera storia racchiusa dentro un'unica cornice.
Possono fare poco, in questo senso, le trasformazioni di Favino, Servillo e Mastandrea, tre attori che sono letteralmente diventati i loro personaggi anche grazie a un trucco efficace.
Vederli impressiona, specialmente durante le prime sequenze nelle quali appaiono, ma anche in questo caso siamo di fronte a un mero effetto speciale. Fanno specie, sono credibili nei comportamenti, ma la loro linea narrativa è così lineare da lasciare ben poco, specialmente una volta che Sollima si gioca il primo colpo di scena lasciando intendere la strada che il suo lavoro imboccherà.

Speravo in qualcosa di più, devo ammetterlo, anche se non ho idea del perché. Dopotutto è la classica storia di criminali che il regista ama raccontare. Uomini senza cuore, pieni di risentimento, sconfitti (o magari vincitori nell'unico modo per loro possibile), che si trovano di fronte alla grande occasione di redimersi, anche se chiaramente dovranno pagare il prezzo più alto.
Forse sono io a chiedere troppo tutte le volte. Oppure magari semplicemente non so più nemmeno cosa voglio.
Meglio se ci bevo su, che tutto quel caldo mi ha messo sete.




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