Lo spettatore #283- Il senso di giustizia: La parola ai giurati (12 Angry Men, 1957)
La lettura della sceneggiatura scritta da Reginald Rose, forse ve lo ricordate, è stata una delle esperienze che più ho apprezzato da quando, a circa dodici anni, ho iniziato a imparare come si usano i libri. Una vicenda così ben cesellata da farmi pensare che non ci fosse nemmeno bisogno di costruirci un film attorno per farla funzionare (o uno spettacolo teatrale, o un programma televisivo, obbiettivo quest'ultimo per il quale nacque).
Tuttavia poi ho visto Henry Fonda nei panni del giurato numero sette e ho capito che certe storie possono addirittura migliorare se prese in mano da professionisti capaci.
Non starò a dilungarmi troppo sulla trama, del resto è piuttosto semplice e ne avevamo anche già parlato. Di fatto si tratta semplicemente del racconto di una giornata nella quale dodici uomini appartenenti a una giuria popolare devono decidere sulla colpevolezza o l'innocenza di un giovane accusato dell'omicidio del padre. Il caso in tribunale sembra chiarissimo e infatti tutti votano colpevole al primo colpo, senza farsi troppi scrupoli. Tutti tranne uno però, che di mandare sulla sedia un ragazzino senza nemmeno discuterne un poco non se la sente proprio.
Rose ha messo tutto sulla pagina, per i dodici attori e per Sidney Lumet alla regia vien da pensare che resti ben poco da fare, tranne portare la barca in porto. Eppure di talento in così poco spazio ce n'è una tale densità che potrebbe bastare per una nazione intera e il risultato è un film che riesce a stupire quasi come fa la sceneggiatura la prima volta a che la prendi in mano.
Rose ha messo tutto sulla pagina, per i dodici attori e per Sidney Lumet alla regia vien da pensare che resti ben poco da fare, tranne portare la barca in porto. Eppure di talento in così poco spazio ce n'è una tale densità che potrebbe bastare per una nazione intera e il risultato è un film che riesce a stupire quasi come fa la sceneggiatura la prima volta a che la prendi in mano.
Vedere
attori così capaci fare il loro lavoro guidati da un regista che non
rinuncia a qualche guizzo nonostante l'essenzialità del racconto, fa
percepire quanto certi piccoli particolari possano essere esaltati
solo da artisti capaci di assorbire il materiale originale e
filtrarlo attraverso una sensibilità di cui io sono privo.
La prima prova di questa verità è il modo in cui Henry Fonda riesce a far trasparire il lato manipolatorio del giurato numero sette, che dalla lettura mi sembrava semplicemente un uomo molto convinto dei suoi ideali al punto da diventarne appassionato e che invece si rivela essere abile nel tendere trappole retoriche, nell'agire con il corpo, nel sorprendere con gli sguardi, nel passare dall'essere un fastidio per tutti a guida e punto di riferimento, ribattendo anche alle teorie più logiche con la forza della sua idea.
La prima prova di questa verità è il modo in cui Henry Fonda riesce a far trasparire il lato manipolatorio del giurato numero sette, che dalla lettura mi sembrava semplicemente un uomo molto convinto dei suoi ideali al punto da diventarne appassionato e che invece si rivela essere abile nel tendere trappole retoriche, nell'agire con il corpo, nel sorprendere con gli sguardi, nel passare dall'essere un fastidio per tutti a guida e punto di riferimento, ribattendo anche alle teorie più logiche con la forza della sua idea.
Poi
c'è l'aspetto più profondo, che dalla sceneggiatura nuda e cruda
non ho colto. Una volta chiuso il libro, infatti, ero convinto di
aver letto semplicemente una storia di giustizia nella quale il buon
senso finiva per prevalere grazie alla decisione di un uomo
fortemente legato agli ideali della società americana.
Invece no, guardando la pellicola si percepisce chiaramente come il risultato venga ottenuto proprio grazie alla capacità del numero sette di scoprire le ipocrisie di tale società, mostrandone i lati aggressivi e pregiudiziali che la caratterizzano.
Gli altri undici giurati dopo la prima votazione son tutti amiconi, uniti da valori di cui vanno fieri come un popolo compatto. Quando però Fonda ne scopre i nervi a uno ad uno, il cemento si sgretola ed è lì che questo capolavoro della narrativa moderna sfoggia i suoi numeri migliori, aiutato dalle caratterizzazioni offerte dai dodici protagonisti, uno più splendido dell'altro nell'incarnare il tipico americano medio, categoria così variegata da non esistere nemmeno.
Invece no, guardando la pellicola si percepisce chiaramente come il risultato venga ottenuto proprio grazie alla capacità del numero sette di scoprire le ipocrisie di tale società, mostrandone i lati aggressivi e pregiudiziali che la caratterizzano.
Gli altri undici giurati dopo la prima votazione son tutti amiconi, uniti da valori di cui vanno fieri come un popolo compatto. Quando però Fonda ne scopre i nervi a uno ad uno, il cemento si sgretola ed è lì che questo capolavoro della narrativa moderna sfoggia i suoi numeri migliori, aiutato dalle caratterizzazioni offerte dai dodici protagonisti, uno più splendido dell'altro nell'incarnare il tipico americano medio, categoria così variegata da non esistere nemmeno.
Poi si, forse in qualche momento il cambio di voto di alcuni giurati suona un poco frettoloso, ma l'idea di Lumet probabilmente era quella di evitar di star lì ventidue ore a vedere il gruppo frantumarsi, per poi riunirsi come insieme di individualità. Del resto il senso del gioco è bello chiaro e al di là di alcuni argomenti strettamente figli della sua epoca, mi pare piuttosto valido ancora oggi.
Insomma, io credo che se voleste leggere la sceneggiatura di Reginald Rose vi fareste sicuramente un favore, ma se volete sapere davvero come il meccanismo funziona è da Lumet che dovete passare.




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