Lo spettatore #279- Il futuro è arrivato: Civil war (2024)

Fino al 2024 Alex Garland l’avevo solo sentito nominare senza aver nemmeno l’idea di quali film avesse diretto. Ecco a pochi mesi dall’inizio del 2025 (i miei post vengono sempre pubblicati con molto ritardo rispetto al momento nel quale li concepisco) son arrivato già alla terza pellicola del nostro, segno che quando il grande burattinaio decide di mettersi a lavorare fa le cose per bene.
Se dovessi decidere di definire il mio rapporto con questo regista dopo tutte queste visioni probabilmente utilizzerei il termine “conflittuale”. Ma solo perché sono una persona diplomatica.

È difficile dire che un film di Garland sia brutto perché l’uomo ha occhio, capacità e conosce il mestiere.
Come forse saprete (se ho già pubblicato le opinioni su Annientamento e Men, cosa tutt’altro che sicura), fin qui io ho visto solo l’aspetto horror della cinematografia di Garland, mentre questo Civil War si aggrappa a un'ambientazione un filo più concreta, perché se la guerra civile negli Stati Uniti (ancora) non c’è, la guerra e basta in giro per il mondo è una realtà tristemente diffusa e per quanto ci piaccia sottolineare le differenze culturali tra i popoli, quando si tratta di essere degli stronzi bastardi figli di puttana siamo tutti uguali.
La storia la conoscete perché l’opera fece parlare di se ai bei tempi andati, quando ciò che raccontava sembrava ancora l’incubo distopico di qualche intellettuale pessimista e non il prossimo futuro di una nazione che sta per fare i conti con tutte le sue controversie: un gruppo di giornalisti decide di intervistare il presidente poco prima delle sue brutali dimissioni forzate per immortalarne le ultime dichiarazioni e consegnarle alla Storia. 
Ecco, di un viaggio conta il percorso più che la destinazione e proprio sfruttando tale principio Garland ci mostra i vari stadi di bestialità che il paese più civilizzato del mondo (sedicente) può raggiungere quando è governato da un pazzo egemone che ne frantuma le istituzioni per preservare sé stesso.
La guerra civile di Garland non è più quella tra i liberali nordisti e gli schiavisti del sud, perde ogni forma di giusto o sbagliato (anche postticcia) e torna nell’alveo della guerra in quanto tale. Tutti sono brutali, tutti ammazzano e tutti godono nel farlo. 

È evidente che con queste premesse il contesto diventa più importante della trama, durante la quale i giornalisti riportano quello che anche lo spettatore vede. Ci sono dei momenti di tensione ben costruiti (e so che tutti adesso state pensando a Jesse Plemons, ma non è solo quello), ma sono più basati sulle situazioni che sull’apprensione per i personaggi. Tra questi c’è scarsa chimica e a chi sta dall’altra parte dello schermo questo arriva. La costruzione dei loro caratteri è fatta per sommi capi, di loro sappiamo ciò che serve per capire il motivo che li fa stare lì e poco altro. 
Potrei pensare che ciò sia dovuto alla loro professione: sono talmente abituati alla morte e al sangue da essere diventati immuni allo schifo (ma lì c’è una tizia che dice di avere ventitre anni, e che secondo me ne ha anche meno), quasi soldati a loro volta, però la spiegazione non mi convince.
La verità è che il Garland che ho visto io è sempre così e dei suoi personaggi gli interessa poco. Se questo aspetto lo aiuta a costruire horror cerebrali zeppi di simboli, dall’altro lo guida con una freddezza glaciale, che costringe lo spettatore a elaborare forse più di quanto sia utile fare.
Anche qui ho avuto per le mani un film bello, persino coinvolgente durante la visione, ma poco appassionante, tanto che al termine della stessa il mio cervello aveva già avviato il comando di formattazione. 
Chiaro, un passaggio se lo merita, soprattutto in tempi minacciosi come questi. Tuttavia non so bene quanto lo ricorderemo quando tutto questo sarà finito.

 

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