Lo spettatore #259- L'imperdonabile peccato di invecchiare: Nebraska (2014)

Tra tutte le nefandezze che è capace di combinare l’umanità, la più imperdonabile è quella di invecchiare. Se c’è una cosa che fa rabbia è vedere lo sguardo di qualcuno svuotarsi e mostrare lo smarrimento di chi vede sfuggire la propria essenza e non sa più a cosa aggrapparsi.
La vita è un’esperienza brutale che non lascia via di scampo.

Forse è proprio quel tipo di rabbia che provano i parenti di Woody Grant (portato in scena da un commovente Bruce Dern) quando l’anziano capofamiglia si convince di aver vinto un milione di dollari e, siccome nessuno vuole accompagnarlo a ritirarli, decide di farsela a piedi.
Dopo averlo recuperato per l’ennesima volta in giro per la città, però, il figlio più giovane David (interpretato dal giustamente dimesso Will Forte) intuisce che dietro l’atteggiamento ostinato del padre si nasconde qualcosa di diverso dal capriccio di un uomo che sta svanendo nel degrado del suo cervello e allora decide di accontentarlo e portarcelo lui in Nebraska (guarda caso, il titolo del film. Non se ne fanno sfuggire una sulla collina).
Spesso si dice che da anziani torniamo ad essere come i bambini, ma secondo me non è proprio così. I bambini sono affamati di mondo e i loro capricci sono figli del desiderio di avere tutto e subito, di conoscere, di mettere le proprie esigenze in cima alla lista per mancanza di un senso della misura ancora tutto da formare. Un anziano invece si aggrappa a certe cose per sentirsi ancora parte del mondo nella piena consapevolezza che sta per uscirne, per trovare uno scopo quando tutto attorno sembra volerlo mettere da parte. A non cambiare è l’atteggiamento di chi sta in mezzo a queste età, sempre troppo occupato a vivere per accorgersi di certe sottigliezze.
Per fortuna di Woody, però, David possiede una sensibilità diversa che lo porta a comprendere le necessità stravaganti del padre e che, in definitiva, darà la possibilità ai due di intraprendere un viaggio che varrà molto più del milione che l’anziano crede di aver vinto.

Grazie a una sosta presso il paese di origine di Woody (il solito desolato buco americano definitivamente polverizzato dalla crisi), David scopre lati di suo padre che non conosceva: un uomo gentile dal carattere eroso a causa della guerra e dell'atteggiamento predatorio degli altri verso la sua disposizione affabile. L’alcolizzato scostante e scontroso che David conosce è il prodotto di tutto questo e assieme a lui lo capiscono anche gli altri membri della famiglia che gli faranno quadrato intorno contro il nido di serpi che si nasconde tra i parenti e i cosiddetti amici di gioventù, tutti pronti ad abbracciare Woody solo per sfilargli il portafoglio.

Alexander Payne ci racconta la storia con delicatezza, appoggiandosi a un bianco e nero privo di aggressività, lasciando che il passato di Woody emerga piano piano, con tutti i suoi imbarazzi, ma anche con i suoi rimpianti, le occasioni perse e il ricordo piacevole di chi gli ha voluto bene e che, nonostante tutto, continua a volergliene perché da qualche parte sotto la scorza scorbutica dell’anziano quell’uomo c’è ancora. O forse no, ma è stato lì e solo questo alla fine conta.

Che poi in mezzo ai bifolchi del paesotto ci si diverta pure è tutto di guadagnato. I due nipoti di Woody sono così stupidi da essere macchiette, il gruppo che guarda la partita riesce a divertire anche pronunciando tre parole e in generale il raduno dei fratelli Grant ricorda il pranzo di Natale (per quanto, per fortuna, non tutti abbiano parenti del genere).
In fin dei conti, dopo aver conosciuto la gente del paese e aver incontrato tutta la parentela, è difficile non dare torto a Woody nel voler essere scorbutico e solitario. Certe volte è la vita a indicarti la direzione.
Un film da vedere.





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