Lo spettatore #188: La guerra fredda degli alieni: L'Invasione Degli Ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, 1956)
La fantascienza negli anni
cinquanta veniva osservata con un sopracciglio alzato. Spesso
considerata genere da macellare nelle sale di seconda fascia, non
invogliava le grandi case di produzione a sostanziosi investimenti
per farla funzionare. I film che uscivano dagli studios erano quindi
realizzati con sistemi di fortuna, tanto da apparire bizzarri anche
ai loro contemporanei.
Figurarsi quanto male può essere invecchiata un'opera di quel genere per noi, così abituati alle realizzazioni multimiliardarie che fanno tremare le poltroncine in platea.
Ecco, se però dietro allo stile improvvisato di quei tempi ardeva un'idea, anche dagli anni cinquanta del genere più bistrattato potevano nascere gioielli dal valore inestimabile.
Figurarsi quanto male può essere invecchiata un'opera di quel genere per noi, così abituati alle realizzazioni multimiliardarie che fanno tremare le poltroncine in platea.
Ecco, se però dietro allo stile improvvisato di quei tempi ardeva un'idea, anche dagli anni cinquanta del genere più bistrattato potevano nascere gioielli dal valore inestimabile.
Non è un caso, infatti,
che The Invasion Of The Bodysnatchers sia uno dei film più rifatti
del suo tempo. Il punto di forza del prodotto di Don Siegel è
probabilmente nascosto nel romanzo dal quale è tratto. Ma è anche
un espediente cinematografico così efficace da levare dall'equazione
tutti i problemi che i coraggiosi registi dell'epoca dovevano
affrontare quando si approcciavano alla fantascienza. Niente
astronavi, niente alieni, niente mostri.
Qua basta lavorare con quello che si ha. Luci, trucco, atmosfere. Più un paio di baccelloni di gomma, va bene. Ma quando il cattivo è il tuo socievole vicino, che non sembra nemmeno troppo strano rispetto al solito, sai che il terrore si può nascondere dietro a qualsiasi angolo.
Qua basta lavorare con quello che si ha. Luci, trucco, atmosfere. Più un paio di baccelloni di gomma, va bene. Ma quando il cattivo è il tuo socievole vicino, che non sembra nemmeno troppo strano rispetto al solito, sai che il terrore si può nascondere dietro a qualsiasi angolo.
Il faccione volitivo di
Kevin McCarthy è proprio quello che ci vuole all'interno di una
storia che parte seminando dubbi sui personaggi. Orgoglioso,
sfacciato, sicuro di se, il dottore deve fare uno sforzo di
comprensione per credere alle teorie di Becky Driscoll (Dana Wynter),
la quale sostiene che il caro zio sia un'altra persona.
Quando poi le cose iniziano ad andare male l'attore è anche capace di restituire lo smarrimento e la tensione di una situazione sempre più strana, rendendo ancora più convincente lo spettacolo.
La storia si srotola su canoni classici, con McCarthy che tenta di prenderne in mano le redini e Wynter costretta al ruolo di damigella in pericolo, totalmente smarrita tra le braccia dell'eroe.
Quando poi le cose iniziano ad andare male l'attore è anche capace di restituire lo smarrimento e la tensione di una situazione sempre più strana, rendendo ancora più convincente lo spettacolo.
La storia si srotola su canoni classici, con McCarthy che tenta di prenderne in mano le redini e Wynter costretta al ruolo di damigella in pericolo, totalmente smarrita tra le braccia dell'eroe.
Del resto siamo di fronte
a un film che si porta sulla schiena settant'anni. Età che si sente
anche durante sviluppo della trama. A volte viene da chiedersi perché
protagonisti e antagonisti si muovano in un certo modo, quando la
logica suggerirebbe altro. Il tempo ci ha insegnato ad essere
esigenti e certi passaggi oggi appaiono quantomeno ingenui.
Tuttavia Don Siegel sa costruire un'atmosfera da accerchiamento che, almeno finché non sfoga nell'inseguimento finale, soffoca lo spettatore. Tutti attorno al dottore e alla sua bella sembrano cambiare. Eppure nessuno pare accorgersene. Dopo di che, e qui vengo al discorso fatto prima sull'ingenuità di certe scelte, come faccia Driscoll a tramutarsi in una di loro senza nascere dal baccello resta una domanda senza risposta.
Tuttavia Don Siegel sa costruire un'atmosfera da accerchiamento che, almeno finché non sfoga nell'inseguimento finale, soffoca lo spettatore. Tutti attorno al dottore e alla sua bella sembrano cambiare. Eppure nessuno pare accorgersene. Dopo di che, e qui vengo al discorso fatto prima sull'ingenuità di certe scelte, come faccia Driscoll a tramutarsi in una di loro senza nascere dal baccello resta una domanda senza risposta.
L'Invasione Degli
Ultracorpi a suo tempo fu inserito nella collana di pellicole
anti-sovietiche che popolavano le sale agli esordi della guerra
fredda. Difficile non notare le ammiccatine dopotutto: un popolo che
si trasforma in efficiente macchina per la produzione collettiva, che
si libera del crimine e della proprietà, ma che, al contempo, perde
totalmente la propria umanità, induce a pensare.
Siegel ha tenuto spesso a specificare come tale messaggio non fosse intenzionale. Eppure in certi momenti la sceneggiatura schiaccia forte il bottone della propaganda.
Resta comunque una storia intrigante da seguire, indipendentemente da tutto. Perché il regista, pur con i limiti dell'epoca, inserisce tutto ciò che serve a una buona narrazione. C'è l'aspetto horror, un po' di azione, l'inseguimento e un happy ending da arrivano i nostri piuttosto tipico del periodo.
Siegel ha tenuto spesso a specificare come tale messaggio non fosse intenzionale. Eppure in certi momenti la sceneggiatura schiaccia forte il bottone della propaganda.
Resta comunque una storia intrigante da seguire, indipendentemente da tutto. Perché il regista, pur con i limiti dell'epoca, inserisce tutto ciò che serve a una buona narrazione. C'è l'aspetto horror, un po' di azione, l'inseguimento e un happy ending da arrivano i nostri piuttosto tipico del periodo.
Dura poco, cosa da non
sottovalutare. Va dritto al punto con poche premesse e sa come
trattare l'argomento. Magari durante una pigra serata d'estate
potrebbe rivelarsi la scelta giusta. Sempre che non preferiate i vari
rifacimenti.
Ma di quelli, nel caso, parleremo in altre occasioni.
Ma di quelli, nel caso, parleremo in altre occasioni.
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