Lo spettatore #261- Jesse Owens dove sei?: Race (2016)

La vita di Jesse Owens sembra un film, ma può un film raccontare la sua vita, specialmente in un epoca che pretende narrazioni prive di spigoli?
A quanto pare Stephen Hopkins ha deciso di rispondere a questa domanda e lo ha fatto attraverso una produzione che sembra nata per farsi bella davanti a uno specchio.
Le imprese sportive di Jesse Owens credo le conoscano tutti, così come l'importanza del contesto nel quale avvennero. Son passati novant'anni da quelle olimpiadi eppure gli spettri dalle grigie uniformi con le fasce rosse scarabocchiate vagano ancora per il nostro mondo, pronti a riempire freschi sacchi di carne e gettare una nuova oscurità sull'alba dell'avvenire. Ma noi occidentali durante questo tempo dovremmo aver capito come disinnescare i pericoli ed evitare a quei fantasmi di tornare. Dovremmo, appunto. Perché in realtà siamo ancora qua a fare la solita propaganda da due soldi.
Race forse non è un mero manifesto politico, anche perché gli manca la forza per poterlo diventare, ma sicuramente non è nemmeno una narrazione capace di andare oltre le convenzioni stabilite dai nuovi puritani dell'academy.  
Hopkins mette giù un gran contesto, questo non glielo posso negare. Una ricostruzione storica ottima (che raggiunge quasi il prodigioso quando i giochi di Berlino prendono vita sullo schermo), mette il racconto nella giusta prospettiva, o quantomeno nella prospettiva che gli autori ritengono giusta, perché un filo di eccesso glicemico si percepisce fin dalle prime fasi della storia.
Non sapremo mai quante fatiche Jesse e il suo braccio destro abbiano dovuto affrontare per essere ammessi in una università americana negli anni trenta, visto che il film ce li presenta già sul punto di trasferirsi al campus. In compenso la sceneggiatura ci suggerisce come la questione razziale nei civilissimi Stati Uniti fosse già sul punto di essere risolta, visto che tutta la diffidenza verso i due sparisce davanti alla meraviglia di un triplo record del mondo abbattuto in mezz'ora.
Gli sceneggiatori Joe Srapanel e Anna Waterhouse sono così ingenui che sembra nemmeno si rendano conto di cosa sottintendano queste scelte. Si limitano a piazzare un paio di muri di testo alla fine, che tanto non leggerà nessuno, per dire che in realtà anche nei civili USA non è che amassero così tanto i neri. E una scena, giusto, quella in cui Owens deve entrare dall'ingresso secondario in quanto nero, anche se si starebbero celebrando le sue imprese. Una presa di posizione durissima, subito smorzata dal ragazzino che riconosce il campione e gli chiede un autografo, simbolo delle nuove generazioni aperte al cambiamento. Oppure semplicemente reiterazione del concetto espresso prima: se sei vincente e/o ricco, in America puoi avere anche la pelle verde, otto tentacoli e il muco che ti esce dagli occhi, tutti ti guarderanno con ammirazione. Provati a essere un poveraccio e poi magari parliamo della questione razziale.
Del resto la parte più interessante del film è quella che si svolge alle spalle del nostro eroe. Il dibattito del comitato olimpico americano sull'opportunità di partecipare a dei giochi organizzati in una terra dove vigeva un regime dispotico e assassino pareva piuttosto vibrante. Un dibattito che non rinunciava a qualche grossa dose di ipocrisia, ma che, se non altro, ha consentito al regista di schierare i giocatori migliori della rosa. Jeremy Irons e William Hurt (specialmente il secondo mi viene da dire), giganteggiano nel branco. Il primo mettendo in scena un personaggio complesso, abbastanza scafato da permettersi di trattare con Goering, ma non così disumano da non comprendere lo schifo delle idee naziste, perennemente travolto dalla lotta interiore che è il sale della real politik. L'altro più dolente, portatore di un'idea che avrebbe cambiato gli equilibri (anche se non sul lungo termine temo), fieramente convinto dell'ideale olimpico seppur non del tutto libero da un sottile razzismo che a quei tempi era sulla breccia anche tra i più democratici cittadini dell'emisfero Ovest.
Perché il nazismo non è arrivato da Marte, anche se spesso ci piace pensarla così, ma è figlio di una mentalità diffusa capace di accettare gli estremi pur di trovare un cambiamento (non sentite come un deja vu?).
Qui viene forse il momento più traballante della trama politica che vuole raccontare Race. Al di là dell'ottimo Goering di Barnaby Metschurat, sempre in bilico, imprevedibile, evidentemente disturbato, quasi malaticcio, utilissimo a dimostrare come in Germania i gerarchi fossero pazzi, più cattivi persino bieco affarista americano, a colpire sono i caratteri di Carl “Luz” Long e della regista del Reich Leni Riefenstahl. Perché se il primo è effettivamente diventato amico di Owens subendone le conseguenze (ma non è detto che fosse un antinazista da prima), fa quantomeno storcere il naso che un'artista rimasta in Germania per scelta quando tutti se ne andavano, possa aver architettato la trappolona per ingannare Goering e le sue manie di grandezza.
Sembra quasi l'ennesimo tentativo di allontanare il nazismo dalla gente comune, di farci credere che i gerarchi si siano materializzati nei ruoli di potere senza che nessuno se ne accorgesse e che, una volta lì, si siano impadroniti di tutto, ostacolati dalle disperate azioni degli eroici cittadini tedeschi finiti dentro un brutto incantesimo. Ora, per quanto non tutta la Germania fosse nazista, questo rimane un pensiero fuorviante e pericoloso e se pensate che stia esagerando guardatevi un poco in giro e fate due confronti con ciò che succedeva all'epoca di Weimar o nell'Italia di pochi anni prima.
Al di là dell'impostazione vecchia quanto il novecento, comunque, questo aspetto del film funziona bene, si avvale degli attori più ispirati e dà sostanza a una pellicola che altrimenti rischiava di non averne.
Nella foto qui sopra possiamo ammirare Stephan James mentre cerca il suo personaggio. Si perché con tutto quello che aveva da raccontarci, Hopkins pare si sia dimenticato proprio di Jesse Owens.
Per quanto il protagonista sia quasi sempre in scena, è come se non fosse mai in primo piano, penalizzato da una sceneggiatura che sembra scritta con il pilota automatico. Tutto ciò che gli capita pare avvenire dieci minuti prima e non perché io sia particolarmente ferrato sulla biografia del campione, quanto perché la trama procede per passaggi convenzionali. Non essendo nel 2016 ancora così diffusa l'intelligenza artificiale, io penso che si tratti di semplice pigrizia, della voglia di portare a casa un qualche premietto trattando una storia come questa evitando il più possibile di sporcarla con il realismo, anche per non inquinare l'immagine di paese progressista che gli Stati Uniti talvolta vorrebbero farci vedere.
Il risultato è un film noioso, a tratti insostenibile, che ripete le stesse cose che Hollywood racconta almeno da quando i social hanno cominciato a riempirsi di indignati.
Qual è quindi lo scopo di questo film? Bah, forse quello di piantare una bandierina all'epoca del primo trumpismo, oppure quello di assecondare la massa dei commentatori da tastiera, o magari (e nel caso sarebbe un fallimento) coltivare l'ambizione di educare il pubblico al rispetto delle diversità, vai a capire. Certo, io resto convinto che l'unico vero obbiettivo di un film dovrebbe essere quello di raccontare una storia, che poi tra le righe ci sia un messaggio dipende dalla sensibilità di chi la realizza e di chi ne fruisce.
Qui la storia non c'è, Jesse Owens non c'è, lo sport non c'è. Non amo i discorsi utilitaristici applicati a queste cose, perché privi di senso, ma se li facessi direi che Race è un film inutile.
Di sicuro è un film che potete evitare.







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