Lo spettatore #266- Se le lacrime rischiano di appannare la vista: Collateral Beauty (2016)

Quello del lutto è un tema delicato, spesso utilizzato dal cinema per mettere sul piatto ragionamenti sul dolore e sulla necessità di andare avanti anche se certe sofferenze non potranno mai essere superate.
Poi è chiaro che esistono modi e modi di trattare l'argomento e non sempre ne viene fuori un film impeccabile.

La pellicola non inizia male: grazie a un veloce flashback David Frankel ci mostra chi era Howard Inlet prima del dramma che stava per piombargli addosso, ovvero un uomo ispirato, un imprenditore coinvolgente, uno che ama ciò che fa e chi lo fa con lui. Poi, saltando avanti di tre anni, ci viene presentato l'oscuro signore che ne ha preso il posto, devastato dalla perdita, incapace di comunicare e privo di ogni desiderio. Così i suoi tre amici e soci decidono di prendere in mano la situazione.
Un momento chiave dopo il quale il film perde di senso sempre più rapidamente ogni minuto che passa.
Frankel è alla ricerca della lacrima facile, questo si vede fin da subito. Per perseguire l'obbiettivo si affida alla sceneggiatura fiabesca scritta da Allan Loeb che non rinuncia a un tocco sovrannaturale per parlare dell'elaborazione del lutto, ma non solo. Anche i tre soci di Howard attraversano momenti complessi e gli attori ingaggiati per provocare la scossa nel depresso leader dell'azienda sembrano l'ideale per rimediare ai guai di tutti quanti.
Non so quanto posso dirvi riguardo allo sviluppo della trama, perché ho l'impressione che il regista volesse giocarsi qualche colpo di scena scava cuore per costruire il suo racconto. Vi dirò solo che non funziona, perché, se anche si sceglie di utilizzare gli elementi fantastici, una storia deve rispettare la propria coerenza interna, cosa che Collateral Beauty decide di non fare.
C'è questa abilissima investigatrice ingaggiata dai soci di Howard per provarne l'instabilità mentale e costringerlo ad accettare la vendita dell'azienda. Si vedono i soci parlare con lei, discuterne le scoperte e pianificare i passi successivi. Poi insieme decidono di metter in piedi il piano che prevede l'assunzione dei tre attori, con lo scopo di filmare Howard e ritoccare le immagini in modo che sembri litigare da solo.
Qui scatta la domanda: da quando il piano prende il via, i tre soci non parlano più con la detective? Oppure anche la stessa detective è qualcos'altro da ciò che sembra? Perché basterebbe discutere con lei per capire che ad Howard sta effettivamente succedendo qualcosa di strano e far venire giù tutto il palco. Voglio dire che l'intera storia si regge su un presupposto fasullo e per quanto ignorarlo porti effettivamente al finale ad alto concentrato di sali minerali, la stonatura esiste ed anche bella evidente.
Potrei anche dire che le rivelazioni che Frankel piazza nella parte finale in realtà erano leggibili durante tutta la pellicola, tanta è l'ovvietà che circonda la trama, ma non sarò così crudele, anche perché non parliamo di un thriller ma di un racconto sentimentale costruito per far ricchi i produttori di fazzoletti.
Non voglio nemmeno accanirmi su Will Smith, ormai family man fatto e finito, che almeno è convinto di ciò che fa, a differenza di Ed Norton, ad esempio, chiaramente portato sul set contro la propria volontà e costretto a recitare dentro un film che sente anni luce lontano da sé.
Dispiace magari per la sempre splendida Hellen Mirren, le cui doti abbiamo apprezzato altrove e che qui ha per le mani un personaggio non proprio alla sua altezza. Poi c'è anche quell'altra là, della quale mi rifiuto di parlare che non vorrei vedere nemmeno in foto, ma che nel 2016 faceva ancora la sua parte al botteghino, evidentemente (a scanso di equivoci non sto parlando di Kate Winslet, le cui abilità sono sempre troppo poco utilizzate).
L'insieme balla tra il trattenuto (e qui Smith in effetti il suo lavoro lo fa quasi sempre bene) e l'eccessivo, con momenti imbarazzanti sparsi qui e lì, che non fanno altro che accrescere i dubbi sulla tenuta di una sceneggiatura che si rifiuta di tenere conto delle proprie stesse regole.
Peccato dopotutto, perché, visto da una certa distanza (Plutone?), Collateral Beauty potrebbe anche avvicinarsi al suo scopo. Parla pur sempre di lutto e di rinascita, di momenti complicati per chi il lutto lo subisce, ma anche per chi gli sta intorno. Frankel ha deciso di giocarsela con il fantastico e in questo non c'è nulla di male. Tuttavia basta levare la patina fatta di lacrime cristallizzate per scoprire che sotto c'è un vero disastro.
Un film di plastica che con un semplice accendino si scioglie deformandosi irrimediabilmente.






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