Lo spettatore #270- Lunedì mattina: Un giorno di ordinaria follia (Falling Down, 1993)
Con ordinario folle ritardo sono riuscito ad agguantare un
film che mi sfuggiva da decenni, un’opera definita dai più come la descrizione
del crollo di un uomo medio schiacciato dalla vita quotidiana al punto di
esplodere e mettere al suo posto una società alienante che pretende dalle
persone solo lavoro e apatia.
Ecco, mi hanno sempre mentito.
Ecco, mi hanno sempre mentito.
Certo l’idea di dare sfogo a tutte le frustrazioni a cui
veniamo sottoposti è stuzzicante e di conseguenza funziona da ottimo volano per
gli incassi, tuttavia la premessa che nessuno fa quando parla di questo film è
che William Foster detto D-Fense di ordinario non ha proprio niente, tranne
forse l’abbigliamento e gli occhiali da impiegato. L’uomo è un tizio piuttosto
aggressivo, con un ordine restrittivo sulla schiena e un passato recente
piuttosto inquietante. Diciamo che la via del giustiziere per lui si è aperta
ben prima degli avvenimenti narrati qui, che rappresentano solamente l’apice
della sua deriva.
Che poi, a ben pensarci, un altro errore che ho commesso da profano è stato immaginare che il protagonista fosse proprio il personaggio di Michael Douglas, a quei tempi la mela più succulenta del cestino, mente invece a guidare la baracca è Robert Duvall che si porta addosso l’aria dimessa del poliziotto ormai giunto alla pensione.
Che poi, a ben pensarci, un altro errore che ho commesso da profano è stato immaginare che il protagonista fosse proprio il personaggio di Michael Douglas, a quei tempi la mela più succulenta del cestino, mente invece a guidare la baracca è Robert Duvall che si porta addosso l’aria dimessa del poliziotto ormai giunto alla pensione.
Martin Prendergast (Duvall appunto) è all’ultimo giorno di
lavoro prima di chiudere la carriera e accontentare la moglie ansiosa e
petulante. Tutti sappiamo dove porta lo stratagemma narrativo dell’ultimo caso
e poi chiudo (o ultimo colpo, dipende da quale lato del campo si vuole
illuminare) e così come noi lo sa anche Joel Schumacher, che gioca con le
aspettative del pubblico costruendo per Duvall un personaggio con il quale è
facile immedesimarsi, lontano anni luce dal prototipo del super poliziotto
sbruffone e infallibile di quegli anni.
Raccontare lui da un lato, che agisce quasi da solo essendo l’unico del distretto ad aver capito di trovarsi di fronte a una minaccia concreta, e D-Fense dall’altro che procede come un treno, privo di inibizioni e fermamente convinto delle proprie motivazioni, pare portare verso un finale quasi ovvio e se non è così è proprio per il colpo messo a segno dalla sceneggiatura di Ebbe Rob Smith, capace di ribaltare una volta di più le regole del gioco, senza che ciò incida sul valore dell’opera.
Raccontare lui da un lato, che agisce quasi da solo essendo l’unico del distretto ad aver capito di trovarsi di fronte a una minaccia concreta, e D-Fense dall’altro che procede come un treno, privo di inibizioni e fermamente convinto delle proprie motivazioni, pare portare verso un finale quasi ovvio e se non è così è proprio per il colpo messo a segno dalla sceneggiatura di Ebbe Rob Smith, capace di ribaltare una volta di più le regole del gioco, senza che ciò incida sul valore dell’opera.
La forza del film è proprio quella di giocare con la
prospettiva. Il primo soggetto che vediamo è l’antagonista e quello di cui
seguiamo le peripezie più in dettaglio è sempre lui, tanto che, almeno fino a
un certo punto, viene naturale pensare a D-Fense come il baricentro di tutto il
progetto. In realtà però Schumacher ci sta raccontando la storia del
poliziotto, dei suoi tormenti, delle difficoltà famigliari e di come queste si
ripercuotano sul suo lavoro, rendendolo talvolta quasi lo zimbello della
centrale, mentre è l’unico che capisce il mestiere e lo fa con passione.
Peccato che i toni da commedia troppo spesso rovinino l’atmosfera di tensione che dovrebbe serpeggiare tra le bollenti vie di Los Angeles. Capisco che fosse necessario prolungare il gioco ed era utile dare qualche appiglio al pubblico per empatizzare con Foster, anche se si tratta di uno squilibrato totale. Ma si è un pochino esagerato secondo me.
Peccato che i toni da commedia troppo spesso rovinino l’atmosfera di tensione che dovrebbe serpeggiare tra le bollenti vie di Los Angeles. Capisco che fosse necessario prolungare il gioco ed era utile dare qualche appiglio al pubblico per empatizzare con Foster, anche se si tratta di uno squilibrato totale. Ma si è un pochino esagerato secondo me.
Magari è proprio la natura di Foster a non avermi fatto
apprezzare completamente questo film. Se si fosse scelto un personaggio
effettivamente ordinario forse avremmo avuto per le mani una storia più
intrigante, ma, ripeto, in questo film non si parla del pazzo che sbrocca, ma
dell’uomo ordinario che gli dà la caccia.
Anche se Douglas aggredisce teppisti sanguinari, nazisti e milionari con tanto tempo libero e risparmia brava gente e dolci famiglie, non viene mai la tentazione di schierarsi dalla sua parte e questo anche prima che vengano rivelati i suoi disturbi, mentre Duvall con il suo sorriso triste sotto i baffi rassicuranti fa solo venir voglia di dargli una mano.
Per quanto seducente sia l’idea di armarsi con una mazza e rimettere in sesto la società a suon di sganassoni, non è questo il film che vi darà questa soddisfazione, anche se il titolo italiano e tanti commentatori sosterranno il contrario.
Forse questa è stata, in fin dei conti, la ragione della mia amarezza.
Anche se Douglas aggredisce teppisti sanguinari, nazisti e milionari con tanto tempo libero e risparmia brava gente e dolci famiglie, non viene mai la tentazione di schierarsi dalla sua parte e questo anche prima che vengano rivelati i suoi disturbi, mentre Duvall con il suo sorriso triste sotto i baffi rassicuranti fa solo venir voglia di dargli una mano.
Per quanto seducente sia l’idea di armarsi con una mazza e rimettere in sesto la società a suon di sganassoni, non è questo il film che vi darà questa soddisfazione, anche se il titolo italiano e tanti commentatori sosterranno il contrario.
Forse questa è stata, in fin dei conti, la ragione della mia amarezza.
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