Lo spettatore #224- L'inferno della musica: Whiplash (2014)

Gli americani sono capaci di trasformare qualsiasi cosa in una competizione. Se vinci forse verrai ricordato, se perdi il tuo destino sarà quello di rimuginare in eterno sul tuo fallimento. Pazienza se questo atteggiamento porta ai suicidi o alle stragi nelle scuole. Sono piccoli eventi collaterali in una nazione che continua a dire a sé stessa di essere la migliore in assoluto.

Pensate a questo ragazzetto che ama suonare la batteria. Da un certo punto della sua vita in poi si convince di dover diventare il migliore. Per noi romantici ignoranti la musica dovrebbe rappresentare un piacere, un divertimento da esercitare quando si vuole far sparire le brutture intorno, tuttalpiù una modalità di espressione artistica a disposizione di chi è in possesso di qualche dono speciale.
Ma eccellere richiede una notevole dose di sacrificio, forse persino di dolore. Farlo all’interno di un conservatorio dominato da uno che il piacere della musica lo ha perso da tempo, è anche peggio. Whiplash è un film sulla sofferenza, sulle piaghe, sulla fatica. È un Rocky senza lo spirito dell’ultimo arrivato. È il racconto del soldato Palla Di Lardo senza la rassegnazione e la conseguente disperazione. È la brutalità di una società che ti considera solo se hai qualità per metterti in luce.
Poi c’è la musica, presente, ovviamente centrale, ma mai strumento di piacere. C’è sempre una componente di ambizione che la fa diventare puro specchio di sofferenza. Che senso può avere fare tutti quei sacrifici per una batteria? Solo quando il piacere diventa passione e la passione diventa ossessione si può capire.

Whiplash è una sfida tra l’alunno e un maestro dittatore, che non porta rispetto per alcuno che non sia sé stesso. Lui dice di farlo per tirare fuori il meglio dalla materia grezza che sono i suoi studenti, ma chi sa se è possibile credere a questa versione?
Resta il fatto che Damien Chazelle prende in mano una storia piuttosto lineare e la plasma per renderla speciale. Lo fa utilizzando la musica jazz, adattando le immagini ai ritmi del genere, provando a costruire seguendo il tempo, vera ossessione del professore. Per sapere se il regista sia riuscito nel suo intento occorrerebbe essere esperti di jazz (o di cinema) e io non lo sono. Tuttavia l’impatto su uno spettatore medio è forte, perché la sfida tra il volenteroso e arrogante giovanotto contro il suo inesorabile professore è zeppa di colpi bassi, gesti ingiusti, trivialità eccessive.
Non si può amare il Fletcher di J.K. Simmons (splendido) perché va troppo oltre con i suoi metodi e ci si chiede se non esista un preside nell’istituto che lo possa rimettere in riga. Ma è difficile parteggiare anche per l’Andrew di Miles Teller, lontanissimo dallo stereotipo classico del personaggio in crescita che siamo abituati a vedere.
Forse gli unici per i quali si prova un po’ di affetto sono il papà Paul Raiser (se non altro perché gli si vuole bene a prescindere) e Melissa Benoist, qui priva di tuta e muscoli da Supergirl e in versione slavatina tenerina ragazza della porta accanto che ti vien voglia di abbracciare. Il sentimento scoppia perché quei due siamo noi, i normali, quelli che vedono da distante il talento consumarsi dentro la passione, senza capire, senza sapere, con l’unica voglia di farlo ragionare.  
Il film si chiude secco, senza applausi, senza gloria, quasi che il senso di tutto il discorso ormai non fosse nemmeno più quello. Come se per Andrew non contasse nemmeno diventare il migliore, ma sfondare il muro eretto dallo stronzo che gli urla davanti. Un climax denso di carica emotiva al quale non segue l’epilogo, lasciando lo spettatore lì a riflettere sugli sguardi.
Direi una chiusura perfetta per un racconto che poteva essere il solito romanzo di formazione ma che invece ha saputo fare qualcosa di più
Bravo Chaz. Quando vuoi sai raccontare le cose.


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