CDC #55- Houston non abbiamo un problema- First man

Oggi può sembrarci strano, presi come siamo da ipotetiche colonizzazioni marziane, ma per migliaia di anni il sogno più grande dell'umanità si chiamava Luna.
Cosa rappresentava quella cosa sospesa nel cielo? Si poteva raggiungere? Come sarebbe stato arrivare lassù? Ma soprattutto, era davvero fatta di formaggio?
Ecco, spinto dalla fretta di una guerra tecnologica incruenta ma violentissima, sul finire degli anni sessanta qualcuno quel sogno lo ha realizzato.
Noi oggi siamo qui a parlare di quel qualcuno. Cioè, non in senso che ve ne parlerò io e attenderò commenti che non arriveranno. Ma discuteremo del film che ne parla.

Dopo essere stato un grande trombettista di colore e prima di rovinarsi la reputazione con quella storiaccia di doping al Tour De France, Neil Armostrong faceva l'ingegnere. Spronato da una grave perdita e dalla voglia di esplorare, si iscrisse al programma Gemini per le sperimentazioni spaziali. Da li alla Luna il passo fu breve. Si fa per dire.
La premiata ditta Chazelle-Gosling si circonda di volti noti della TV e mette insieme questa lirica sulla vita di Neil Armstrong, cercando di esplorare il carattere del più famoso e tormentato astronauta della storia americana.
Ne viene fuori il ritratto di un uomo controverso, mai in pace con se stesso per la scomparsa della figlia piccola, ma freddo come un ghiacciolo quando si tratta di gestire le situazioni critiche.
Proprio questa capacità di mantenere la calma quando tutto va storto gli permette di scalare le gerarchie, anche a dispetto di piloti aeronautici all'apparenza più preparati di lui.
Ma questo è un aspetto quasi sfumato nel film di Chazelle. Il regista pare più interessato all'uomo che sta alla base dell'astronauta. Introverso, difficile, incapace di liberarsi dei propri tormenti, il Neil che va in scena qui pare ossessionato dalla possibilità del viaggio lunare, non tanto per il lato esplorativo in se, quanto come occasione di allontanare i suoi dolori di almeno 384 mila chilometri.
Impossibile sapere se nelle sequenze finali della passeggiata lunare ci venga raccontata la verità vera. Tuttavia quei gesti chiudono bene il cerchio narrativo e, seppur prevedibili, funzionano piuttosto bene dal lato emotivo.

Magari per gli amanti della rigorosità storica stabilire la certezza di quelle fasi potrebbe essere una discriminante. A me invece frega poco.
Il senso stesso dell'impresa viene colto da Chazelle grazie alla costruzione della trama. Ci presenta un uomo come tanti, scontroso se vogliamo, persino geniale nella sua capacità di calcolare variabili che ad altri sfuggono, ma tutto sommato un padre di famiglia regolare destinato alla più grande impresa mai compiuta dall'umanità.
Forse memore degli insegnamenti del Mark Watney di The Martian, il regista ci spiega come i problemi vadano affrontati uno alla volta. Che di errore in errore, anche da quelli tragici, si possa progredire fino a creare qualcosa di impensabile.
Però Neil è un uomo dai tormenti celati. In questo senso la scelta di mettergli la faccia di Ryan Gosling si rivela vincente. L'attore inespressivo più in gamba del momento ci restituisce un Neil Armstrong credibile. Aiutato da Claire Foy nei panni di una moglie alle prese con un uomo impossibile, Gosling rappresenta bene l'introverso astronauta, consentendoci di entrare nei meandri più nascosti di un'impresa folle e ambiziosa fino all'estremo.
Vero, manca tutto il resto. Buzz Aldrin lo vediamo poco e anche se certi racconti lo definiscono come l'uomo capace di sdrammatizzare i momenti più drammatici, qui appare come una cinica comparsa. Così come tutti gli altri personaggi che compirono l'impresa vanno e vengono come lampi. D'altra parte questo è un biopic incentrato su un'unica figura e se si cerca qualcosa di più onnicomprensivo esistono certamente altri modi per trovarlo.


Buoni gli effetti speciali, con la claustrofobia che ci assale quando ci vengono mostrate le fasi di lancio. Metallo cigolante, postazioni strettissime, squarci di esterno microscopici e strumentazione che lampeggia di continuo restituiscono bene la sensazione di angoscia che si doveva provare in quella fase pionieristica del volo spaziale. Poi, una volta lassù, si nota come Gravity abbia fatto scuola. La calma totale e il silenzio dello spazio troncano di colpo il terrore del lancio. Riecco quindi le iconiche immagini della terra vista dalla Luna, con tutto il corollario di fragilità, eccetera eccetera.
Nonostante in qualche sequenza la colonna sonora sembri puntare all'enfasi, l'intenzione del regista non è mai quella di inchiodarci alla poltrona con la potenza dei suoi effetti. Lo scopo delle riprese è sempre quello di scavare nell'animo di Neil. Non è un caso che ogni due per tre a vincere sia il silenzio e che la grande impresa non sia sottolineata da particolari fanfare.
Ripeterò di nuovo il concetto: First Man non è una pellicola sul piede che si posò sulla Luna, ma sull'uomo che quel piede lo portava a spasso. Se non ci si approccia con questa idea si rischia di sbatterci il grugno.

Certo, l'impresa che sta alla base del film ha un grosso impatto sul gradimento della pellicola stessa. Dubito che un racconto di fantasia messo su in questo modo potesse essere coinvolgente quanto la storia di Neil Armstrong.
In generale First Man è un buon film, che si sforza di uscire dall'aspetto epico dello sbarco lunare per affrontare la cosa da un punto di vista, scusatemi, più terreno.
Prova a parlarci di determinazione, del dolore, della difficoltà di superare la perdita di un figlio che è maggiore di quella che si incontra in una missione lunare. Perché lassù puoi illuderti di avere tutto sotto controllo, quantomeno. Poi la famiglia, la fatica nel rapportarsi con gli altri, il terrore di nuove perdite.
Tutto molto bello e intenso. Ma ho come l'impressione che questa pellicola non mi rimarrà nel cuore. Che forse era l'obbiettivo più importante che Chazelle si proponeva.
Peccato no?
Ciao.

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