100 volte 500 a Indianapolis.
Oh che gioia! Oh quanta partecipazione!
Decine e decine sono state le domande giunte nei commenti in coda
all'ultimo post. Molte di queste, in realtà, riguardavano un
argomento completamente diverso da quello trattato e si riferivano
alla 500 miglia di Indianapolis. Mi si chiedeva cosa ne pensassi, se
fosse una gara che seguo. Cose così.
Io mi sono armato di buona volontà e
ho deciso di rispondere. E il fatto che la stragrande maggioranza di
queste richieste provenisse dalle voci che albergano nella mia testa
non ha smorzato il mio entusiasmo. Nemmeno un po'.
Essendo la 500 miglia poco seguita
dalle nostre parti indossa il manto esotico del mistero. Trasmesso
solo sui canali della nota piattaforma satellitare, è un evento poco
accessibile, ma, se anche fosse di semplice fruizione, ai non
appassionati potrebbe semplicemente sembrare una manifestazione in
cui trentatre beoni girano in tondo per 200 volte.
Certamente la competizione ha parecchi
tratti respingenti, ad iniziare dalla fase preparatoria, nella quale
il patriottismo americano si palesa attraverso una cerimonia tronfia,
con saluti militari, inni nazionali, musica country; momento amato
solo dagli autoctoni, meglio se redneck, e dagli appassionati di film
tipo Indipendence Day. Non sono facili da digerire nemmeno le lunghe
neutralizzazioni della corsa, durante le quali i piloti procedono in
fila indiana per interminabili minuti, ufficialmente per dare il
tempo ai commissari di percorso di pulire la pista. Nella realtà le
bandiere gialle servono ai network televisivi per inondare gli yankee
di spot pubblicitari e ai tifosi presenti in circuito per coltivare
la loro obesità tramite hot dog grondanti salsa e bibite talmente
zuccherate da risultare solide.
Ci sarebbe anche il dopo corsa, con i
falsissimi ringraziamenti del vincitore, dopo tre ore di gara
massacrante, a ogni singolo sponsor che ha attaccato l'adesivo sulla
macchina. Ma li il bello è finito, quindi basta cambiare canale.
“Folklore” sostengono le voci
dentro la mia testa. Hanno ragione ovviamente. Una nazione dalla
storia esile come gli Stati Uniti approfitta di ogni occasione per
celebrare i capisaldi che reggono il suo impero.
Ma cosa succede di bello quindi
nell'ovale adagiato nell'Indiana? Beh, qualcuno dice questo:
E inizia la corsa.
Non esiste nulla di più basico del
rapporto tra velocità e competizione che si respira nel catino. Qui
bisogna tenere il piede giù e basta, consapevoli di essere in pista
con 32 piloti che faranno altrettanto e con la presenza ingombrante
del muro sulla destra, compagno implacabile deciso a far pagare un
prezzo altissimo per ogni errore di valutazione.
Indy 500 è Storia perché è composta
da tante storie. Come quella del pole man di quest'anno, tal James
Hintcliffe, che, nel maggio del 2015, proprio qui subì un incidente
in prova che sembrò chiudere per sempre il suo promettente rapporto
con l'automobilismo. Eppure, dopo 365 giorni, capace di stabilire il
miglior tempo alla terrificante media di 371 km/h. Vicenda simile a
quella di Danny Ongais, l'hawayano volante, e secondo alcuni primo
pilota di colore della storia, che nel 1981 si ridusse così:
Salvo poi risalire sulla monoposto e
gareggiare per molti anni a venire. O l'incredibile edizione 1973,
interrotta per pioggia, con il clamoroso capottamento di Salt Walter
al via e la tragedia di Swede Savage. E poi Mario Andretti, AJ Foyt,
la famiglia Unser, l'inossidabile Buddy Lazier, la swoosh car.
Insomma l'epica della pista infernale (come la chiamarono in un film)
è sparsa in tutte le edizioni della sua 500 miglia e sopravvive in
una delle pochissime corse rimaste fedeli a se stesse. O forse no.
La prima edizione che mi capitò di
seguire (su TMC all'epoca, con l'indimenticabile telecronaca di
Renato Ronco) fu quella del 1990, vinta da Arie Luyendik. Inutile
dire che scoppiò l'amore a prima vista.
A quel tempo, pur non potendone vantare
le raffinatezze tecnologiche, la categoria Cart si poteva
tranquillamente definire l'altra Formula 1.
Telaisti di gran prestigio, grandi case
automobilistiche impegnate a fornire motori, campioni attempati ma
ancora velocissimi, si sfidavano in un campionato competitivo e
affascinante che trovava nella Indy500 il suo gioiello più
splendente. 50 iscritti per 33 posti in griglia, auto
dall'aerodinamica ricercata (e a volte rasentante la provocazione),
progettate da geni che poi avrebbero fatto strada (Newey e Barnard si
sono formati nel catino, ad esempio): l'età dell'oro.
Poi venne la crisi economica di un
campionato che non tirava quanto la sua gara di punta, le scissioni,
le fusioni, la ricerca ossessiva della sicurezza, i regolamenti che
prevedevano auto più stabili e tutte uguali, il telaio unico e i due
motori. La decadenza.
Da qualche anno ormai assistere alla
corsa più veloce del mondo non è stimolante come una volta. Le voci
dicono che mi sto rincoglionendo parlando come gli anziani: “era
tutto meglio quando eravamo giovani noi, oggi siete tutti senza spina
dorsale!”.
Però è un fatto che le vetture stiano
incollate al tracciato come se corressero nei binari delle piste
Polistyl. E il trionfo di Alexander Rossi in questo 2016 va a
confermare questo mio scontento.
Famo a capisse: ho tutto il rispetto
per il vincitore e, del resto, non è il primo ne probabilmente
sarà l'ultimo rookie a primeggiare nel catino.
E' il modo nel quale la sua ed alcune
delle vittorie ottenute nelle stagioni precedenti mi lascia l'amaro
in bocca. Con questo tipo di vettura l'impressione è che l'unica
caratteristica utile per vincere a Indy sia il coraggio di scendere
in pista.
Basta, come nel caso di Rossi (peraltro
transitato fugacemente anche in Formula 1), tenersi fuori dai
problemi e sperare nella fortunosa genialità di un team owner come
Brian Herta.
Date retta, non fidatevi dei numeri: 52
avvicendamenti al comando e 852 sorpassi totali sono la norma con
auto tutte uguali e in un circuito dove domina il gioco delle scie.
E' fisica.
Così come non è il caso di urlare al
rinascimento per i quattrocentomila presenti sul tracciato e per il
record di iscrizioni. Era il centenario.
In questa categoria, ormai, manca la
sfida tecnologica. E si è ridotta di molto anche la proverbiale
selettività della maratona ovale dell'Indiana. “Montoya è Sato
sono pur finiti a muro” dicono le voci. Vero, ma, a ben guardare, ci sono
eventi più sorprendenti al mondo.
Insomma, se si vuole liberare la
manifestazione dalla prigione dello spettacolo a tutti i costi in cui
è stata rinchiusa, ridandole la dignità di competizione
automobilistica estrema che le appartiene, dalle parti di Indianapolis,
forse, bisognerebbe iniziare a ripensare la formula. Ma sono
americani, quello che conta è salutare l'esercito, mangiare
porcherie e mandare in onda decine di minuti di rulli pubblicitari.
Quindi tocca tenersela così com'è.
Comunque ciao. Vi salutano anche le
voci.
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