Lo spettatore #251- La paura di perdere qualcuno: Pietà (피에타, 2012)

Una storia di vendetta. Un revenge and rape (inversione dei termini voluta) anomalo, crudele, infido, insinuante, senza pietà (appunto). Roba che solo in oriente hanno ormai il coraggio di presentare.

Ecco, il film parte subito mettendo le cose in chiaro: il nostro eroe qui è un totale squilibrato, sadico bastardo il cui compito è recuperare i crediti elargiti a strozzo dal suo capo. Completamente privo di morale, storpia persone senza tentennamenti, tra l'altro tutta gente povera che fatica a mettere insieme il pranzo con la cena e che rappresenta la culla della cultura coreana destinata a farsi assorbire dalla modernità.
Poi però nella sua vita entra una strana donna che pare arrivare dal passato e che ne sconvolge le abitudini, costringendolo a fare i conti con una nuova compagna: la paura di perdere qualcuno.
Mi fermo qui con la trama, anche perché Kim Ki-duk se la gioca con qualche colpo di scena che è giusto lasciare nascosto, anche se la sua opera non è fatta di questi stratagemmi ma li utilizza solamente per imprimere più forte il concetto.
Il regista ci va giù pesante con le sue scelte narrative, a volte pare addirittura esagerare per il puro piacere di provocare, specialmente nella prima parte. Poi però dimostra di non avere nemmeno bisogno di certi passaggi crudeli, in quanto il vero cuore sanguinante della vicenda sta nel suo sviluppo, nel momento in cui tutte le verità vengono alla luce e il perverso meccanismo che guida la storia è troppo ben avviato per poter essere arrestato.
Quello che sembra un racconto di salvezza è in realtà una storia di espiazione abitata da eroi tragici che non hanno alcuna possibilità, se non quella che viene offerta loro dal finale. I due protagonisti sono pazzi con obbiettivi specifici. La vera crudeltà è farci credere che non sia così, che per chiunque esista una via d'uscita, che persino gli stronzi più diabolici possano trovare appigli per sembrare quasi umani.
In un film occidentale questa lettura forse verrebbe inserita, specialmente in tempi come questi. Nella penisola dei Kim, invece, paiono abbastanza convinti che la vera essenza dell'umanità sia fatta di cattiveria e perversione (non per forza sessuale, maliziosi) e che in fin dei conti il pentimento sia sempre tardivo e figlio dell'inevitabilità.
I due attori chiamati a reggere la scena sono adatti agli scopi di Kim Ki-duk, con Lee Gang-do piuttosto sopra le righe alla maniera orientale e Mon-sso Jo quasi dimessa, almeno sulle prime, adattata a un personaggio che deve entrare in punta dei piedi e prendersi lo spazio piano piano.
Un film breve, che nonostante tutto non rinuncia alle inquadrature ostinate (forse a volte persino troppo) di un dramma intimo che colpisce con violenza chi ci si approccia, costringendo a voltare lo sguardo di fronte a una realtà oscena.
Non una visione facile, va detto. Ma sicuramente qualcosa capace di restare impresso.






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