Lo spettatore #249- Un altro pagliaccio assassino: Terrifier (2016)

Il titolo di oggi mi è passato davanti agli occhi talmente tante volte da finire inevitabilmente per incuriosirmi. Tenevo un vago senso di sospetto sempre attivo nei confronti di Arthur il Clown però, perché da lontano sembrava il solito assassino da film slasher. Ma soprattutto temevo che la tradizionale stupidità delle sue vittime mi facesse bollire il latte nelle ginocchia.


Complice il consueto allineamento planetario di certe domeniche mattina invernali, mi è finalmente capitata l'occasione di buttare l'occhio sul primo film di quella che ormai possiamo definire saga. Un prodottino girato con due spicci, si direbbe, con poche ambientazioni e una manciata di caratteristi buttati nel mucchio. Damien Leone e il suo gruppo sono consapevoli di tutti i limiti derivanti da simili condizioni e paiono sfruttare l'occasione per mettersi alla prova rinunciando a pretese o ambizioni.
Il risultato è un'opera effettivamente derivativa del genere horror più in voga negli anni ottanta e novanta, che tuttavia non rinuncia a qualche test narrativo, tanto per vedere cosa succede.

Di classico Leone importa la figura dell'assassino, spietato, creativo, persino buontempone a suo modo, ma soprattutto inesorabile. Un uomo con tratti sovrannaturali, che sembra attratto dalla protagonista del film, anche se è chiaro che il suo desiderio nei suoi confronti non è esattamente sessuale. Fin qui direi tutto piuttosto in linea con quello che ci si potrebbe aspettare, con l'aggiunta di un sadismo che pare arrivare direttamente dall'epoca del torture porn, che può piacere oppure no, ma è comunque uno dei motivi per cui gli appassionati seguono il genere.
Del resto sangue, disgusto e spaventi sono il materiale su cui il prodotto si basa per fornire la sua attrattiva, anche perché non c'è molto altro. Manca il disturbo di una situazione che ti fa stare scomodo sulla sedia, per esempio, così come è assente la tensione, nonostante l'impegno messo dagli autori per estrarla.
Qui forse c'è la possibilità che le scelte narrative abbiano avuto il loro peso, ma se non avete visto il film e voleste dargli un'occhiata ci salutiamo qui. C'è talmente poca roba qui dentro che non vorrei rovinarvi l'unica svolta con del potenziale della sceneggiatura.
Se ci siete ancora saprete che la signorina ritratta qui sopra non è Angelina Mango dopo la svolta gotica, ma Jenna Kanell alle prese col personaggio di Tara Heyes, protagonista, almeno fino a un certo punto, della vicenda. Della coppia di ragazze reduci dalla festa di Halloween a lei spetta il ruolo di quella saggia, con la testa sulle spalle, che conosce i rischi potenziali delle ore notturne in città per due fanciulle in costume sexy e che sa anche quando è troppo brilla per mettersi a guidare. Di solito le persone sagge nell'horror si salvano, soprattutto se si prendono la scena fin dai primi minuti. L'idea di ucciderla, effettivamente, cambia un poco le carte in tavola anche se succede in un film dove muoiono praticamente tutti. Per di più nella prima fase ci viene proposta l'intervista a una ragazza orribilmente sfigurata, cosa che lascerebbe aperto il gioco sulla sua identità e sulla possibilità che quella sia proprio Tara, salvatasi dalla furia del killer ma a prezzo carissimo.
Tuttavia la nostra muore a metà del film, levando da subito allo spettatore i balocchi della speculazione, ma soprattutto lo fa in modo così stupido da rovinare il personaggio.
Il fatto che una tipa prudente come Tara improvvisamente si senta Steven Segal e decida di sfidare un mostro momentaneamente in difficoltà (ma che ha già dimostrato di non stare a terra per molto tempo) invitandolo ad alzarsi e combattere invece di provare a levarsi dalle palle, fa capire quanta poca attenzione sia stata messa nel preparare il colpo di scena. Non viene da pensare “oh no, Tara!” ma “ecco, visto che sei più cogliona di quella sgallettata della tua amica, alla fine te lo meriti”. Non un bel modo di salutare l'unica persona che in tutta la visione è riuscita ad attirare un poca di simpatia.
Si perché la morte di Tara non prepara il campo a qualcun altro. Il resto della fauna che si alterna tra le segrete del magazzino abbandonato è fatta da persone che non abbiamo conosciuto e delle quali sinceramente non ci frega una beata.
Così l'opera di Leone diventa l'esercizio di cui parlavo sopra, utile a testare il comparto effetti speciali (ottimo, va detto), la fotografia piatta da Polaroid in movimento (raramente disturbante quanto dovrebbe) e la fantasia degli sceneggiatori nell'incattivire il loro assassino.
Alla fine della visione non è che resti molto, oltre alla sensazione di aver visto una pellicola immatura e non troppo bene bilanciata, dato che dopo la morte di Tara la storia finisce per arrotolarsi su se stessa tra gente che urla in corridoi vuoti e un assassino che fa le boccacce.
Ha i suoi momenti, specialmente quando Art fa sfoggio delle abilità di mimo e dà senso al suo aspetto. Forse ai giovanissimi che amano fare i bulli davanti ai film horror potrebbe persino piacere.
Dal canto mio, se anche i seguiti sono così non capisco come abbiano fatto ad arrivare a tre. Ma chissà, magari poi migliora.






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