Lo spettatore #202- La cosa giusta. Sempre: Hostiles (2017)

Difficile fare i conti con il proprio passato, specialmente per una nazione con una storia lunga una pagina alla disperata ricerca di miti fondativi.
Gli americani, tanto per fare un esempio del tutto casuale, hanno questa cosa della frontiera. Un luogo della nostalgia dove la determinazione (e qualche arma da fuoco) potevano consentire anche al più gretto degli individui di costruire un impero. La radice del sogno a stelle e strisce, in un certo senso.
Il punto è che questa epica vacilla quando si vuole studiarne più nel profondo i meccanismi. Lo scempio della cultura nativa, ovviamente, ma anche l'anarchismo selvaggio. Riletture che col tempo hanno iniziato ad affermarsi, facendo scoprire agli yankees che forse quella che esportano per il mondo non è la meravigliosa libertà che si poteva respirare nei vasti paesaggi del nuovo continente, ma il piacere della sopraffazione tipico di un certo modo di vivere il far west.
A inizio film arrivano i Comanche, determinati a bruciare una fattoria e a sterminare tutta la famiglia, simpatiche bambine e neonato compresi. Pare un richiamo al western classico, con gli indiani visti come selvaggi senza umanità e i coloni impotenti nelle loro fauci. Ma attenzione al dettaglio: quei Comanche sono vestiti all'occidentale. Si potrebbe leggere qualsiasi cosa a proposito di questa scelta, a iniziare dalle malattie portate dagli europei in America, incluse quelle mentali. Ma andiamoci piano, che sono passati solo dieci minuti di un film che dura una settimana (nemmeno baciato dal brio, se dobbiamo dirla tutta) e se iniziamo così finiamo dopodomani.
Piuttosto val la pena soffermarsi sul fatto che la storia è ambientata nel 1892, quando l'era del far west sta vivendo i suoi ultimi rantoli, spazzata via dai treni che hanno reso il continente molto più piccolo.
Ma ovviamente c'è chi resiste al cambiamento. Come il capitano Blocker portato in scena dal caro Bale, che ha consumato la vita a combattere i selvaggi in battaglie sanguinose e cruente e che ora, all'ultimo atto della sua carriera, gli sembra quasi che gli dicano che non sia servito a niente. Ma anche la signora Quaid di Rosamund Pike, unica sopravvissuta alla mattanza iniziale, che non ha ricavato un'impressione lusinghiera dei nativi.
Fa quasi ridere che proprio lui debba riportare a casa un capo indiano malato e antico nemico e che, strada facendo, incontri lei.
Ma no. Non fa ridere.
Che tutta la passeggiata lungo gli ampi spazi debba portare a un'intesa tra le tre figure principali, con relativa immedesimazione e assimilazione della spiritualità indigena incarnata da Wes Studi è cosa talmente ovvia che vien voglia di spegnere e mettersi a fare altro.
Ma si sa, non è cosa racconti, ma come lo racconti a fare la differenza. In questo senso Scott Cooper si gioca un arsenale di interpreti di spessore anche in ruoli marginali. Non vuole lasciare nulla al caso e ogni figura che popola il suo lavoro deve restare. Va anche detto che gli attori amano apparire in queste operazioni, che danno loro un tono intellettuale. Jesse Plemons, Ben Foster e Timothèe Chalamet sono solo alcuni dei nomi che vanno ad arricchire la rosa dei partecipanti e per molti di loro c'è lo spazio di pochi minuti. Ma se vi dicessi che questo faccia di Hostiles un prodotto indimenticabile, beh, sarei un bugiardo.
La pellicola è lenta, ma va bene. Questo vuole essere un racconto riflessivo, che costringe il pubblico a fare i conti con il senso di colpa dell'uomo bianco. A volte forse Cooper esagera con la dilatazione dei tempi, indugia troppo, perde il contatto con lo spettatore. Ma questo non è un problema troppo grave, perché quando vuole andarci giù spietato sa essere asciutto e crudele a sufficienza per riprendersi l'attenzione del pubblico.
Il punto è che Hostiles arriva lungo. Nel senso che questi argomenti sono già stati trattati da Hollywood a partire dagli anni settanta e con molto più coraggio. Oggi il tema non è più controverso come all'epoca di Robert Redford, quindi per catturare avrebbe bisogno di un approfondimento diverso.
Che gli indiani non fossero selvaggi, che gli europei li avessero privati di tutto e ne avessero sopraffatto la cultura ormai lo sappiamo. Cosa può aggiungere una storia costruita su archetipi così monolitici come il capitano dell'esercito e il capo indiano?
Vero, Cooper prova a infilare qualche sfumatura nel ragionamento dei personaggi secondari, gente che prova il brivido del dubbio e che per questo finisce male. Ma sono perturbazioni secondarie, probabilmente più figlie della sensibilità odierna che del pensiero dell'epoca.
Ora, che quando si tratti certi argomenti si tenti di toccarla piano ormai non mi stupisce più. L'esigenza di dire la cosa giusta sempre, nel modo migliore per non far scattare le ire di internet è preponderante, specialmente per opere che costano 35 milioni e che devono portare a casa il botteghino.
Hostiles fa tutto quello che deve fare per completare la sfida. Rispetto massimo per i nativi, sputi in faccia alla cultura assimilatrice americana, un po' di violenza importata dall'Europa e grandi paesaggi messi in scena con la giusta grazia.
Sono abbastanza sicuro che questo film abbia ogni cosa gli serva per piacervi, dico davvero.
Io però non ho nessuna intenzione di rimetterci gli occhi sopra.






Commenti

  1. Passa il tempo ed è ancora il miglior film di Scott Cooper, anche se non le manda a dire. Cheers!

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