Lo spettatore #189: Spogliare i miti dai loro orpelli- La Casa di Jack (The House That Jack Built, 2018)

Inutile fingere sdegno. Il serial killer è un mito letterario bello e buono. Queste figure affascinano per la loro capacità di andare contro la legge e la morale, a causa della loro totale indifferenza alle convenzioni sociali e, non di rado, a un'intelligenza percepita come assai superiore alla media.
Sono soggetti che, anche quando ritratti come nemici dei protagonisti, restano attaccati al cuore del pubblico. Loro scavalcano i nostri freni inibitori e sono dotati di un livello di coraggio a noi è precluso. Come si fa a scrivere una storia che ne parli male e sperare che funzioni?
Beh, basta essere Lars Von Trier, uno che delle citate convenzioni se ne sbatte anche se non è un serial killer (almeno credo).
Quando il regista presenta Jack ci troviamo di fronte a un assassino ancora inconsapevole della propria natura, che come tutti soffoca le pulsioni violente consapevole che sia la cosa più giusta da fare. Ma poi incontra una scema totale e scatta qualcosa.
Ma non pensate alla nascita di un killer freddo e calcolatore, pronto a intraprendere la via dell'omicidio con distacco e metodo. Jack è un imbranato alle prese con una nuova scoperta, che porta avanti più travolto dalla pulsione che nel tentativo di sfidare qualcosa o qualcuno. Non siamo alle prese con Zodiac, Ted Bundy o qualche altro alter ego imbellettato dagli sceneggiatori. Questo è un uomo che ha perso ogni forma di difesa contro se stesso, che non sa pianificare e che si trova in situazioni dalle quali uscire è più questione di fortuna che di abilità.
Certo, piano piano prende confidenza con la sua essenza e allora il film cambia tono. Ma succede con una fluidità che la divisione in capitoli non farebbe sospettare.
Si perché si passa dai momenti grotteschi dei primi minuti al vedere in azione un tizio totalmente scollegato, capace di costruire un personale museo delle cere utilizzando i cadaveri mietuti nel corso della sua intensa carriera. Il tutto mentre Von Trier sovrappone alle immagini una sorta di terapia che il nostro Jack pare portare avanti con un professionista.
Il regista utilizza un bel numero di armi del suo arsenale per rendere chiaro il suo intento. C'è la narrazione in terza persona, l'animazione, l'uso dei colori. Tutti strumenti che ci accompagnano dentro al pozzo sempre più profondo di una mente molto malata.
Naturalmente non dimenticandosi di porre in parallelo il simbolismo della casa da costruire come rifugio dell'anima. Del resto il titolo lo presupponeva.
Il tuffo nell'abisso è totale, direi quasi schiacciante, con il protagonista sempre meno timido nei confronti della sua deviazione, tanto da farla diventare la cura per altri tic nervosi che lo sconvolgono. Finché essa diventa tutto il suo mondo, l'unica cosa che davvero conta. Tutto il resto non c'è più, nemmeno la prudenza. Occorre solo soddisfare la pulsione.
E' tutto buio, anche il finale che assume contorni fanta-religiosi, scoperchiando la vera identità di quello pensavamo fosse uno psicologo e il destino di uno come Jack, ormai talmente traviato dalla sua perversione da essere impossibile da redimere.
Difficile parlare serenamente di un film come questo, che va a tastare un argomento pesante e pieno di possibili interpretazioni. Sono pochi i registi capaci di prendere un soggetto così potenzialmente classico e spogliarlo in questo modo da tutti i suoi cliché.
Non è detto vi piacerà, perché sa essere disgustoso, sia da un punto di vista estetico che mentale. Ma scuote forte. Un buon film dovrebbe fare anche questo.



Commenti