CDC #158- Connessioni ipertestuali dei metadati come fosse antani: Johnny Mnemonic (1995)

Pare che Robert Longo e William Gibson prevedessero il futuro. Vedere un film prodotto nel 1995 (ma tratto da un racconto dello stesso Gibson edito nel 1983) parlare di un 2021 sconvolto dalla pandemia globale e dominato dai circuiti elettronici, stuzzica quella sensazione di sinistra profezia che a volte ci piace provare leggendo le quartine di Nostradamus.
Ma se allarghiamo il campo ci accorgiamo di come Johnny Mnemonic navigasse il pessimismo cyberpunk al pari dei suoi omologhi. Ce n'era così tanti di racconti a tema di futuro infausto nel mucchio che quello che azzeccava l'anno giusto bisognava pescarlo per forza.
E' la legge dei grandi numeri.

Si può non crederlo, perché nell'anno di disgrazia 2021 il cyberpunk è tornato di moda, ma nel 1995 questo genere appariva già stantio. Di prodotti che facevano il verso a Blade Runner gli anni ottanta ne vomitarono parecchi e la sensazione che Johnny Mnemonic sia arrivato un pelo lungo c'è, inutile nascondersi dietro un dito.
Certo, il gusto industriale dei novanta a tratti emerge, specialmente dalle tracce audio inserite nella colonna sonora, ma la sensazione è che Gibson citi se stesso (e Dick) senza star tanto a fingere di portare in sala un prodottino fresco.
Le megalopoli ricoperte di schermi, gli ideogrammi orientali, i grattacieli con il lusso ai piani alti e la feccia al livello del terreno, la tecnologia invadente, le variopinte bande di balordi. Cibernetica, biotica, anarchia. Tutto ciò che è ambientazione in questa pellicola ricalca i classici.
Capite anche voi che 2021, 2050, 2178, non sarebbe cambiato poi molto ai fini della storia.

Johnny Mnemonic è un fumettone che se fosse uscito qualche anno prima avrebbe avuto i riferimenti estetici giusti, mentre se fosse apparso qualche anno dopo forse avrebbe azzeccato l'impostazione narrativa.
La trama è un giocattolo popolato da attori che si divertono come matti in ruoli fuori scala, ma priva di personaggi da ricordare. In sostanza c'è questo medicorriere che si impianta in testa dei dati sensibili che deve trasportare da una parte all'altra del mondo. Viene contrastato dall'immancabile multinazionale del farmaco, la quale si appoggia alla solita yakuza per ottenere il prezioso malloppo digitale. Chiaramente l'eroe trova l'aiuto e l'amore in mezzo ai ribelli strambi che vivono tra gli scarti. Tutto regolare, tranne l'assenza totale di ironia, che in un prodotto del genere è spesso il lubrificante capace di far muovere gli ingranaggi senza troppi imbarazzi.
Certo, sempre se escludiamo Lundgren. Lui proprio la prende come uno scherzo e si vede. Meno male tra l'altro, perché il suo predicatore fuori di testa messo giù con troppa convinzione sarebbe stato decisamente duro da mandare giù.
Tirata all'essenziale, la storia di Johnny Mnemonic è un inseguimento di due ore con Keanu Reeves aiutato da Dina Meyer che scappa da Takeshi Kitano (cosa che, ve lo dico, farei anche io).
Non fosse che tutta la sovrastruttura tecnologica e i lunghi dialoghi in computerese mandano tutto a spasso, complicando inutilmente una vicenda che a tratti appare incomprensibile.
Ovviamente, per rimediare al caos, gli autori sono costretti a ricorrere agli spiegoni, che però non fanno altro che aumentare la confusione.
Tra innesti, megabyte e fantomatiche cure per misteriose malattie, tutta la fluidità di una trama semplice e adrenalinica si perde irrimediabilmente in un buco nero alimentato dai cavi bus.
Forse se uscisse oggi, complice la lunghezza a volte esasperante delle pellicole moderne, Johnny Mnemonic avrebbe un impatto diverso. Un po' più di tempo per descrivere il contesto magari toglierebbe quella sensazione di fretta che spesso avvolge la visione.
Ai suoi tempi invece l'accoglienza fu un mezzo disastro. Guardandolo a distanza di quasi trent'anni si capisce il perché.



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