FL #9- Distopia procedurale: We Happy Few (2016)

Per come la vedo io esistono due estremi nella distopia. Universi opposti e contrari, se vogliamo.
Da una parte Il Mondo Nuovo di Haldus Huxley, dove chi governa tiene buona la popolazione donando felicità artificiale e azzerando il desiderio attraverso la fornitura abbondante di intrattenimento. Dall'altra le cupe atmosfere di 1984, nelle quali un partito dominato dal fantomatico Grande Fratello impone un controllo ossessivo basato sulla privazione sensoriale.
Difficile tentare di trovare un punto di contatto tra due modi così diversi di vedere la decadenza dell'umanità. Ma comunque qualcuno ci ha provato.
Uscito nel 2016 (quindi praticamente un day one secondo i miei standard) ad opera di Compulsion Games e del designer David Sears, We Happy Few è l'ennesimo esempio di come i videogiochi possano permettersi di trattare argomenti maturi senza sfigurare di fronte a medium più blasonati.
La Wellington Wells che fa da sfondo all'avventura è una città soggiogata da un carismatico presentatore TV e popolata da cittadini fatti di una droga chiamata Gioia, che inibisce i loro ricordi lasciandoli storditi e contenti.
Ci si possono leggere molti sottotesti nell'opera di Sears. Alcuni strettamente legati alle distopie da cui prende spunto, altri più vicini a certe aberrazioni presenti ai giorni nostri.
Comunque la si veda è difficile non notare le grandi ambizioni di questo lavoro, che graficamente si ispira ai Bioshock, ma che, se lo studiamo in profondità, ci conduce da tutta altra parte.

We Happy Few si struttura come un'avventura in tre atti, ciascuno dei quali ci chiama a interpretare un personaggio diverso con peculiarità precise.
Ognuno dei protagonisti seppellisce in se i tormenti di un passato terribile. Tutti quanti iniziano a scoprire chi sono piano piano, rendendosi indipendenti dalla Gioia e riacquistando i ricordi. Scelte in grado di donare maturità a un progetto che riesce a discutere di temi piuttosto spessi, pur provando a mantenere accesa la fiammella del gameplay.
In questo senso una delle caratteristiche più pubblicizzate dell'opera è la sua natura procedurale, che le consente di cambiare ambientazione ad ogni partita, spingendo il giocatore ad esplorare il mondo con ogni personaggio.
Esiste pure un albero delle abilità, tanto per donare al prodotto quella componente GDR ormai irrinunciabile. Ma comunque le foglie si aprono abbastanza in fretta da non renderlo un elemento così determinante.
Però c'è anche un problema. We Happy Few è un gioco noioso come un pomeriggio di agosto. Perché potremmo star qui a sindacare sull'inefficacia dei combattimenti e su un comparto stealth abbastanza raffazzonato. Ma questi son fastidi che si superano quando si ha per le mani un'opera valida a livello di coinvolgimento.
Però qui è proprio la natura procedurale del progetto a creare le premesse del disastro. Di fatto il mondo cambia tra una sessione e l'altra, ma c'è così poco da farci dentro che le partite si trasformano in lunghe passeggiate per andare dal punto A al punto B. Minuti interi a camminare che una frugatina tra l'immondizia, la raccolta delle piante o l'ascolto delle chiamate che ogni tanto eruttano dalle cabine telefoniche non aiutano a rendere più sopportabili.
Insomma, a farvela breve, alla metà della missione di Sally (il secondo atto), ho alzato bandiera bianca stremato dalla fatica e sconfitto dalla noia.
Peccato.
Anche perché di potenziale ce ne sarebbe. Lo si intuisce in quelle missioni costruite al chiuso dove il bilanciamento è buono e ci si riesce a divertire facilmente. Sono momenti che forse valgono un acquisto, quantomeno alle offertacce che ogni tanto propone Steam.
Certo, vederselo sugli scaffali a prezzo pieno ai tempi dell'uscita ha sollevato più di qualche malumore e lo capisco. Settanta carte We Happy Few non le vale.
Però la sua anima indipendente e le tematiche non banali portate tra i pixel da Sears un giro lo meritano.
Spendendo poco, ma lo meritano.




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