Lo spettatore #191- Doppia libidine coi fiocchi: House of Gucci (2021)

Diciamo che la volta scorsa non andò benissimo. Ma Ridley Scott non molla e anche a questo giro ci porta nell'Italia del passato per narrarci uno di quegli episodi che sospetto interessino più gli americani che noi.
Non le migliori premesse per invitare in sala un tipo pigro come me. Del resto lui è Ridley Scott e io uno scemo qualunque, quindi dubito fortemente gli interessi la circostanza.
Comunque sia alla fine mi sono convinto a dare una possibilità a questo House Of Gucci. Dopotutto quella sera non è che avessi tanti impegni e sgranchire lo scheletro una volta ogni tanto fa bene alla salute. O almeno così ho sentito dire in qualche trasmissione di medicina.

Se c'è un appellativo che si viene spesso affibbiato all'ultima fatica di Ridley è quello di soap opera su grande schermo. Diciamo che potrei anche farmelo andare bene, perché inquadra con precisione il concetto di ciò che si vede. Ma questa impostazione non è necessariamente un difetto in sé. Dopotutto Scott ci narra la storia di una cacciatrice di dote alle prese con il bottino di un grande impero, non credo si possa affrontare la questione in maniera troppo diversa da quella fatta qui.
Ad ogni modo ridurre tutto il lavoro dietro al film semplicemente alla bonaria presa in giro sulla sua somiglianza (almeno a tratti) ai primi Vacanze Di Natale e alle sue allusioni fotoromanzesche è fare un torto a una pellicola che ha i suoi argomenti, anche se forse non sono sbandierati come il contesto che li contiene.
Lo so anche io che vedere Lady Gaga con la tuta rossa sulle piste da sci fa sospettare che di li a un minuto spunti Jerry Calà a dire libidine. Ma erano gli anni ottanta in Italia vissuti da gente molto facoltosa. Cosa vi aspettavate di trovarci? Un monologo intimista portato in scena da una tizia vestita da uomo seduta su una cazzo di sedia?
Pensate piuttosto alla cura con cui sono stati scelti gli interpreti. Una cosa che secondo me si nota, altro che no. Soprattutto quando il film ci mostra lo scontro tra la Patrizia Reggiani di Lady Gaga e il Rodolfo Gucci di Jeremy Irons. Una, musicista abituata all'eccesso, l'altro, attore trattenuto, capace di dosare ogni movimento in modo che non ci sia mai nulla che appaia di troppo. Perfetti nel dar vita a personaggi distanti anni luce tra loro. Lei, estranea a un certo mondo, che fa di tutto per mettersi in mostra fino a rasentare l'imbarazzo (per se stessa, per il giovane Maurizio, per Rodolfo, per me che guardo tutto questo). Lui, squisitamente dosato, che pare accettare questa presenza disturbante, salvo mostrare il suo pieno disgusto in un unico fuggevole sguardo.
Discorso che vale un po' per tutti, dal volgare Al Pacino (che interpreta l'anima pragmatica della famiglia), al bruciatissimo Jared Leto (nel ruolo di sedicente genio incompreso). Certo, interpretazioni cariche, non dico di no. Ma che Scott riesce a giustificare proprio col tono esagerato di una pellicola che utilizza l'ostentazione e la finta leggerezza di quel periodo per farci vedere come la follia di un certo ambiente possa arrivare a produrre tragedie prive di senso.
E' una cafonata House Of Gucci? Certo, perché è così che ha deciso di essere. Ma se cerchiamo di scavalcare per un attimo le apparenze, riusciamo anche a trovare un disegno dei personaggi che così ovvio non è.
La sceneggiatura per buona parte del suo incedere sembra non offrire una grossa opinione di Patrizia Reggiani, disegnandola come una sciacquetta arrivista abilissima a pescare il pollo giusto. Eppure a fine film l'impressione che resta di lei non è esattamente questa, quanto piuttosto di una donna determinata (probabilmente troppo) unica del gruppo capace di individuare pregi e bassezze di chi le sta intorno.
Così come l'alter ego di Adam Driver, dipinto come un timido e impacciato ragazzino, al quale però il successo modifica eccome la percezione dell'esistenza.
Insomma, se si escludono i tizi secondari messi lì più a far spettacolo che altro (Leto dico a te), la trattazione di Scott a me è parsa interessante, capace di scavare nei caratteri anche se dietro una maschera luccicante che, del resto, era comunque tipica di un'epoca.
Che poi ci sarebbe anche il discorso della durata. I 190 letti sulla locandina spaventerebbero anche il più coraggioso degli autolesionisti, me ne rendo conto. Eppure io ne ho percepiti circa la metà, perché House Of Gucci è un film che raramente si lascia trascinare in momenti di puro minutaggio.
Sa stare con il pubblico, sa raccontare personaggi e riesce anche a mantenere vivo l'interesse per un romanzetto che solitamente provocherebbe sbadigli a uno spettatore con i miei gusti.
Certo, non sarà aderente alla realtà come una pellicola per alimenti, ma non staremo mica qui a raccontarci che il problema è quello li spero.
Non é un capolavoro imperdibile, sta bene. Ma caspita, nemmeno di un disastro indigeribile come alcuni suggeriscono.
A me non è dispiaciuto.



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