Motorsport is dangerous- Capitolo 1: i circuiti- Le Mans 1955

Chissà quale sarebbe l'impatto dell'automobile sulle nostre vite se non esistessero le corse. So che pare un quesito lezioso di questi tempi, ma che ci volete fare. Alla mia mente piace trastullarsi e io ho imparato che è meglio se la lascio fare.
Tuttavia non è un ragionamento campato per aria. Magari non lo sapete, ma se l'automobilismo sportivo esiste ancora è perché un giorno qualcuno ha deciso che valesse la pena andare avanti quando sarebbe sembrato più logico facesse il contrario.
Signore e signori è giunto il momento: oggi parliamo dell'11 giugno 1955.
Le Mans quel giorno brulicava di persone. Una folla indescrivibile affollava le strade della Sarthe assiepandosi ovunque pur di assistere alla 24 Ore, competizione già ammantata di leggenda.
Quella gente aveva ancora impresse le ferite di una guerra devastante e voleva godersi il meglio del boom economico che stava crescendo dai germogli del piano Marshall. L'automobile rappresentava il simbolo della rinascita. Un oggetto che suggeriva indipendenza e ricchezza e che finalmente sembrava alla portata di chiunque.
Ma per celebrare l'icona della nuova era occorreva recarsi nei templi dove questa meravigliosa creatura poteva esprimere il massimo delle proprie potenzialità.
Tra tutti questi luoghi laicamente sacri Le Mans era probabilmente il più significativo. Solo la ventiquattro ore dava giudizi inappellabili su chi fosse il migliore costruttore di vetture da corsa.
Tutta quella folla si trovava lì per questo rito e voleva vivere quel sogno da vicino.
Da troppo vicino.
Del resto è difficile comprendere cosa fosse Le Mans se negli occhi abbiamo l'impianto moderno, iper tecnologico e zeppo di attrazioni che vanno dai palchi per la musica alla ruota panoramica. La corsa si svolge in un tracciato asettico, con i box disposti lontano dagli occhi degli spettatori e la pista a debita distanza dalla tribuna principale. Certo, durante la 24 ore le auto percorrono ancora alcuni tratti di viabilità ordinaria, ma si tratta di strade tirate a lucido, lavorate nella consapevolezza che una volta all'anno li ci girano le macchine più veloci del mondo.
Nel 1955 (e per tanti anni ancora a dire la verità) tutta la competizione si correva su strade normalmente aperte al traffico, piene di irregolarità e soprattutto strettissime. Le soste per il rifornimento si tenevano ai lati del rettilineo principale, con i meccanici ad eseguire gli interventi senza nemmeno un muretto a proteggerli dai bolidi che sfrecciavano loro accanto.
Una situazione che da i brividi se solo ci si sofferma un attimo a riflettere. Ma perfettamente in linea con le usanze del tempo, quando le corse stradali come la Mille Miglia o la Targa Florio erano ancora competizioni vere e proprie e non gare di regolarità per auto storiche.
Non stupisce quindi che la folla accalcata per assistere a questa festa dei motori si sistemasse a bordo pista con i tavolini da campeggio e le libagioni, separata dall'asfalto solo da una staccionata in legno.
La verità è che queste manifestazioni sono state pensate prima della guerra, quando le vetture andavano molto più piano rispetto a quelle del 1955.
Ma il futuro non aspetta nessuno e quel giorno scelse Le Mans per mostrare a tutti quanto spietato sa essere quando non si è pronti a riceverlo.

Seconda ora di gara. La Jaguar D-Type di Mike Hawtorn si appresta alla prima sosta per il rifornimento. E' in testa con un vantaggio risicato sulle due Mercedes SL-R di Pierre Levegh e Juan Manuel Fangio. Probabilmente non vuole perdere troppo tempo nella manovra e mantiene alta la velocità. Ma Mike arriva troppo lungo per fermarsi sulla piazzola giusta, quindi sceglie di tirare dritto e farsi un altro giro. Il problema è che il carburante è agli sgoccioli e l'errore diventa un'opzione non più praticabile. Se Hawtorn non farà la sosta alla tornata successiva la sua Le Mans finirà a bordo pista.
Lance Macklin, dal canto suo, guida una piccola Austin-Healey, vetturetta appartenente a una categoria diversa rispetto ai mostri che dominano la corsa. Del resto la maratona della Sarthe è così. C'è chi corre per vincere e chi è costretto a passare tutta la giornata con gli occhi agli specchietti. Fa parte del gioco. Basta arrivare alla fine, dopotutto.
Siamo nei pressi del rettilineo principale, quello che ospita le piazzole dei box. Macklin probabilmente sente il rombo della Jaguar di Hawtorn (che ha completato il giro supplementare) e si scansa sulla corsia di destra, in modo da non intralciarne il passaggio.
Una volta superata l'Austin rimane fuori traiettoria, perché lanciate a 250 chilometri all'ora stanno arrivando le Mercedes in piena caccia.
Probabilmente il pilota della vetturetta sta cercando di guardare indietro per capire a che punto siano le Frecce D'Argento, anche se qualcuno ipotizza sia impegnato con un cambio recalcitrante. Fatto sta che si distrae.
Lance non si accorge che Hawtorn sta attraversando la pista rallentando violentemente. Se lo trova davanti, praticamente fermo. D'istinto Macklin scarta a sinistra.
La Austin sbanda e scoda, ma la manovra riesce e Macklin per un soffio schiva il tamponamento.
Solo che Levegh è già li e non può far nulla per evitare la piccola auto che gli taglia la strada.
Levegh piomba sull'Austin con tutta la violenza dei suoi duecentocinquanta chilometri orari. La vettura di Macklin diventa un trampolino sul quale la SL-R del francese si arrampica per spiccare il volo.
La Mercedes si schianta sul terrapieno incendiandosi all'istante. Il pilota e l'assale anteriore dell'auto vengono scaraventati lontano. Pezzi di metallo grandi e piccoli volano tra la folla assiepata a bordo pista. C'è confusione, urla e il boato dello schianto che rimbomba nelle orecchie. Le parti più grandi strappate al corpo della vettura arrivano veloci e passano ad altezza uomo, travolgendo tutto ciò che incontrano in quel breve viaggio. Spezzano ossa, staccano teste, maciullano corpi.
Passa un attimo ed è il panico, la gente fugge in tutte le direzioni, sconvolta e frastornata da ciò che è appena accaduto. Tutto sembra durare un'infinità. In realtà dalla manovra di Hawtorn passano pochissimi secondi. Il pilota inglese probabilmente non si accorge di niente.
Del resto sulle prime non è facile capire l'entità dell'incidente. Dal lato dei box, opposto a quello del disastro, si vedono solo le fiamme, ma tutto è avvenuto così rapidamente che non si riesce nemmeno a capire chi abbia sbattuto. L'unica certezza è l'Austin accartocciata, ferma in mezzo alla pista. Il resto è solo un gran caos punteggiato dal rombo dei motori.
Passano quasi sei ore prima che in corsa succeda qualcosa. Un tempo durante il quale nello spazio antistante alle tribune è tutto un via vai di ambulanze, medici, soccorsi vari. Proprio per non intralciare gli interventi degli addetti l'organizzazione seglie di non fermare la competizione, di modo che il resto del pubblico non intasi le vie di comunicazione intorno alla pista.
Ma poi, dopo sei ore appunto, la Mercedes decide di ritirare le proprie vetture dalla gara. Levegh non è sopravvissuto all'impatto e improvvisamente vincere non conta più. Ma quello che ancora nessuno sa è che la casa della Stella, conclusa la stagione '55, non tornerà su di una pista per oltre trent'anni.
Perché quello di Le Mans non è un incidente come gli altri, figlio di un'epoca romantica ma tutto sommato abituata alla tragedia come quella degli anni cinquanta. No.
Il bilancio della catastrofe è impressionante. Ottantadue morti e centoventi feriti. Come un bombardamento di quelli che seminavano cadaveri fino a dieci anni prima. Eppure è durato un attimo.
A distanza di settant'anni si fatica ancora a contestualizzare un evento del genere.

D'improvviso il mondo si rende conto che le corse automobilistiche sono pericolose. Molte federazioni europee cancellano le gare dal programma. In Svizzera il divieto è in vigore ancora oggi, anche se recentemente si è chiuso un occhio per favorire lo sbarco della Formula E. Nei giorni successivi la tragedia l'automobilismo pare destinato all'estinzione.
Ma poi le menti si raffreddano e progressivamente gli eventi ricominciano, pur se orfani della casa che più di ogni altra stava dominando sui tracciati di tutta Europa.
E' evidente che esiste un anacronismo e che se si vuole evitare catastrofi simili bisogna intervenire drasticamente sui circuiti.
Non succede subito. Altre tragedie analoghe a quella avvenuta l'11 giugno 1955 si ripetono, seppure con bilanci meno gravi. Ma poi le cose cambiano. Le corse stradali vengono piano piano soppiantate da quelle organizzate all'interno di circuiti permanenti. Si spostano le tribune, si alzano le reti e si allontanano gli spettatori nella consapevolezza che le auto ormai abbattono record su record a cadenza regolare.
Fa male ovviamente e a volte viene la tentazione di sostenere quanto una volte fosse meglio, con l'odore di benzina che solleticava le narici e il suono del motore che si sentiva fin dentro le ossa. Ma in quel caso val sempre la pena di ricordarsi di Le Mans 1955 e di quanto il prezzo da pagare alla passione possa diventare salato.


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