Lo spettatore #285- Una scelta punitiva: A casa tutti bene (2018)

A volte penso che parlare di Gabriele Muccino sia come sparare sulla Croce Rossa, perché il regista pare sempre così abbattuto che quasi quasi vien voglia di abbracciarlo. Eppure il più anziano dei fratelli i suoi begli incassi li porta a casa sempre attraverso un meccanismo di affabulazione del pubblico che mi risulta misterioso. Ora, magari è vero che il suo cinema non è esattamente quello che piace a me, ci può stare. Tuttavia la curiosità verso un artista che ha sedotto (anche se per poco tempo) persino i produttori di Hollywood c’è e c’è stata anche in passato, tanto che i suoi progetti americani li avevo pure visti, ricavandone una sensazione neutra tendente al positivo.
Perché dunque non provare anche un pizzico della sua produzione italiana?
Ammetto che a farmi scegliere il film è stato il titolo, che secondo me poteva anche celare qualche enigma intrigante (non so perché io sia arrivato a un ragionamento del genere, ultimamente mi sento tanto stanco). Utilizzare un termine importante come “trama” qui pare forse esagerato: diciamo che il canovaccio attorno al quale si muove la sceneggiatura è un classico del cinema nostrano di questi ultimi anni, non molto lontano dalle suggestioni portate sullo schermo da Perfetti Sconosciuti.
In questo caso a trovarsi in una situazione chiusa non sono un gruppo di amici, ma una famiglia giunta a riunirsi su di un’isola per festeggiare un anniversario importante e rimasta ivi bloccata causa tempo avverso. Sapete già come vanno queste cose: la falsa cortesia si può gestire finché la festa dura poco, ma quando la convivenza si protrae oltre misura le tensioni emergono e con esse quel dramma che tanto piace alla gente.
Per quanto non sia esattamente il film dell’anno, A Casa Tutti Bene nella prima parte regge abbastanza bene il peso del vuoto. Siamo alla fase di presentazione dei personaggi, momento rischioso se vogliamo, ma Muccino riesce a creare un po’ di movimento e a caratterizzare la fauna. Certo, c’è Accorsi che è sempre quello da quando faceva Jack Frusciante e quindi basta ricalcargli un personaggio, ma comunque la narrazione procede con il giusto ritmo, anche se, a dire il vero, la sceneggiatura non aiuta molto ad appassionarsi alla vicenda, visto che i protagonisti paiono già un filo sciroccati di loro.
Tuttavia il peggio accade quando la tensione esplode, perché Muccino sembra perdere un attimo il controllo e tutto scivola dentro un dramma teatrale poco lucido ma molto urlato.

Ecco, a teatro un po’ di casino sul palco è probabilmente un buon modo di intrattenere il pubblico, ma il cinema è un’arte diversa e ogni tanto sarebbe carino se le nostre maestranze se ne ricordassero. Da quando l’ottimo Massimo Ghini fa saltare il tappo, la diga cede, anche se, ci tengo a precisarlo, non per colpa sua. Il suo Sandro è l’unico del gruppo che in un certo senso è giustificato a tenere comportamenti eccessivi, eppure è anche uno dei pochi che riesce a miscelarli con momenti trattenuti, rendendo chiara e limpida la tragedia della sua malattia. A guardare il resto del cast, invece, sembra di assistere a un’aula di bambini nel bel mezzo di una rissa. Tutti si gridano addosso, contorcono i visi in espressioni esagerate, tornano a gridare, sbattono le porte, scappano e tornano, riurlano. Un macello di tali proporzioni che diventa persino difficile star li a seguire le loro vicende invece di spegnere tutto e mettere su una puntata di Temptation Island o qualche altro reality basato sulla costruzione di falsi drammi.

Muccino prova gestire il tutto buttando dentro trovate estetiche che dovrebbero favorire il fluire della narrazione, come nel momento in giardino nel quale divide i litiganti in gruppetti e li segue con un piano sequenza alternandoli in modo che ogni storia sembri fondersi con l’altra. Ma il film resta noioso come una giornata tra le mosche e ciò principalmente perché tutto suona falso, recitato e perciò distante dall’epidermide (quantomeno dalla mia). Vero che il già citato Ghini, Marescotti e in parte anche Gianmarco Tognazzi e Valeria Solarino, riescono a tenere la barra dritta. Ma sono gettati in una situazione dove da soli non bastano.
Non dico che il resto del cast non sia in grado di farcela: Sandrelli sa fare bene la tizia un poco svampita, così come Impacciatore (alla quale resterò sempre affezionato, anche se non so perché) ha i suoi momenti mentre gestisce il ruolo di una donna che combatte contro ogni evidenza per coltivare l’illusione della felicità. Tuttavia è l’insieme a non funzionare e specialmente da metà film in poi la visione mi è risultata intollerabile.
Penso che eviterò di approfondire la conoscenza con il resto della filmografia di Muccino e di tutti gli altri creatori di drammi con risvolti da commedia che circolano liberamente nelle nostre sale e sui palinsesti.
Preferisco evitare di soffrire ancora in questo modo.
Ciao.




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