Lo spettatore #277- Tutta la rabbia di una nazione: Zero Dark Thirty (2012)

Lo sappiamo bene: se c’è un evento che ha scosso gli Stati Uniti più di ogni altro è la sequenza di attentati avvenuti l’undici settembre 2001. Un giorno funesto, il più funesto di tutti, che strappò agli americani l’illusione di essere al sicuro dentro al loro recinto fatto di acqua salata e paesi amici (o quantomeno rispettosi). L’essere catapultati in quella situazione indubbiamente provocò tra i cittadini statunitensi una gamma di emozioni che non credo si aspettassero di dover provare, almeno non a seguito di una tragedia simile. Ci fu il dolore, senz’altro. Lo smarrimento. Ma poi, alla fine della fiera, gli americani finirono per esibire quel sentimento che più di tutti aveva plasmato la nazione: la rabbia feroce.

In effetti, pur se girato dodici anni dopo gli attentati, Zero Dark Thirty mi è parso un film ancora pieno di quella rabbia. In un’epoca nella quale qualcuno già osava avviare il processo di umanizzazione di certi comportamenti nichilisti (diciamo così), Bigelow ha scelto di andare dritta per la sua strada, puntando all’assoluta cancellazione delle motivazioni, mettendo in piedi la storia di una caccia lunghissima, a volte esasperante, ma guidata  con determinazione da un’agente giovane capace di ossessionarsi mirando l’obbiettivo anche quando tutti attorno a lei sembrano voler mollare il colpo.
Dopo un film antimilitarista come The Hurt Locker, la regista sembra quasi invertire la rotta, puntando sull’eroismo, a volte crudele ma sempre efficace, dei corpi scelti e dei servizi segreti.
Un’impressione che arriva abbastanza presto durante la visione, ma che forse nasconde qualcosa di più sottile in controluce.

La rabbia di sicuro è manifesta. Anche Bigelow, come la maggioranza dei suoi connazionali, quell’affronto, quell’apertura della porta della fragilità, non l’ha mai perdonata all’uomo che al momento di girare questo film era già cibo per i pesci. 
Io non so se Zero Dark Thirty racconti la vera storia dei veri protagonisti della caccia, tuttavia il fatto che a scovare e sconfiggere l’orco dalla lunga barba sia stata una donna sembra più di un simbolo, pare piuttosto lo smacco finale per quello che per molto tempo è stato definito un diavolo inafferrabile, perché nella sua cultura le donne non valgono nulla e sono costrette a vivere in funzione dell’uomo,  cosa che in effetti la Maya Harris di Jessica Chastain in un certo senso ha fatto, ma solo per distruggerlo e cancellarlo dalla storia.

Eppure non è tutto così semplice. I terroristi sono bestiame da macellare, certo, ma non è che tra le file dei “buoni” si respiri questa grande atmosfera cavalleresca. Bigelow non ci va giù lieve nel mostrare e ci fa capire abbastanza presto come la guerra renda tutti animali. Jessica e gli altri nomi celebri che le ruotano intorno non parlano mai di arrestare e interrogare, quanto di uccidere e torturare.  C’è la rabbia in questo, certo, una rabbia che favorisce atrocità di cui abbiamo sentito  e visto in grande abbondanza durante gli ultimi venticinque anni, ma c’è anche del metodo. C’è il mito di Batman, in un certo senso: se loro provano a spaventarti, tu terrorizzali, dando vita a una spirale senza uscita.
Poi  a condire il piatto ci sono i classici problemi da ufficio, tra gente che vuole fare il gran colpo e finisce male perché troppo ingenua per il mestiere che fa, capi che per sventolare risultati si accontentano di qualche pesce piccolo piuttosto che puntare direttamente al massimo, colleghi su cui la protagonista contava che se ne vanno a fare carriera in posti tranquilli e una valanga di facce note che vanno e vengono, mentre la nostra è sempre lì, in prima linea a spingere per ottenere l’unica testa che in tale situazione è necessario veder rotolare.

Il tutto all’interno di un film che a volte è capace di trasmettere una tensione intollerabile, magari solo per non far succedere nulla (ma se avete visto The Hurt Locker sapete bene di cosa parlo). Una pellicola di due ore e mezza che riesce a raccontare divorando il tempo come un langoliere.
Bigelow si conferma la regista giusta per certe storie, perché non si fa problemi  a spiattellare sullo schermo tutte le controversie di una caccia all’uomo che non vuole eroi, ma solo spietati esecutori. Sta poi allo spettatore decidere come giudicare, lei si limita a mostrare senza filtri.
Mi sa che sono finiti i tempi romantici dei rapinatori alla Point Break. La rabbia si è portata via pure quelli.
 


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