Lo spettatore #272- Sempre le stesse facce in giro: Men (2022)

L’idea di far interpretare tutti i personaggi maschili del paesello allo stesso attore è effettivamente intrigante, perché produce mistero e inquietudine in grosse quantità.
Certo, poi per sfruttare uno spunto del genere occorrerebbe un altrettanto valido progetto di sviluppo, ma non è che nella vita si può avere tutto.
A dire il vero per buona parte del suo incedere il film funziona piuttosto bene costringendo lo spettatore a farsi le domande giuste, tipo: perché la protagonista non si accorge dell’anomalia? Forse lei non vede quello che vediamo noi? Cosa rappresentano i personaggi messi in scena da Rory Kinnear?
Tutti quesiti che trascinano dentro alla vicenda contribuendo a una forma di attaccamento che ha dei toni morbosi, perché nel villaggetto inglese dove si svolgono i fatti tutto è strano e questo indipendentemente dagli uomini  C’è qualcosa nelle scelte artistiche di Garland che fa pensare a un ambiente malsano, sbagliato, pur se all’apparenza ideale e attraente.
Alcune sequenze, come quella con Harper al telefono che mostra la casa all’amica mentre l’uomo nudo la osserva dalla finestra senza essere visto, sottintendono una minaccia che è facile da percepire, anche se troverà sfogo solo più avanti nella visione.
C’è cura nelle inquadrature e nelle riprese, una fotografia coinvolgente e un’aria sinistra che ben si adattano al racconto un po’ astratto che il regista cerca di portare avanti.
Tuttavia ci sono anche quei flashback che perdono sempre più eleganza ogni volta che compaiono sullo schermo e che mostrano come quello che stiamo vedendo sia un agglomerato di simboli, di come gli uomini tutti uguali forse rappresentino qualcosa che ha a che fare con il senso di colpa e il rifiuto di esso, di come certi rapporti siano malati fin dalle loro fondamenta.
Nulla di male visto che Alex Garland non è certo il primo a utilizzare il genere per metter sul tavolo argomenti dibattuti o particolarmente sentiti in un determinato periodo storico. Dopotutto il cinema serve anche a questo.
Il punto è che tra il passato di Harper e gli eventi del villaggio c’è una sorta di distanza che il regista non riesce a colmare come dovrebbe. Ora, è ovvio che se ad interpretare i maschi del paesello fosse stato Paapa Essiedu il giochino messo in piedi dagli sceneggiatori non sarebbe durato nemmeno un secondo (anche se, volendo, con un po’ di furbizia si sarebbe anche potuto fare), ma rimane un grosso punto di domanda sul perché gli uomini abbiano proprio quella faccia lì, che per quanto bravo sia stato Kinnear non ha alcun riscontro con la vita di Harper, o almeno nessuno che ho riconosciuto.
E così per mettere insieme le due anime della sua opera Garland è costretto a un finale disgustoso, in cui il body horror estremo dovrebbe fare da collante tra il passato della protagonista e gli eventi del paese. Un momento indubbiamente molto grafico, non adatto ai deboli di stomaco, ma che comunque suona forzato come non mai, visto che, almeno secondo me, i due spunti alla base di questo lavoro non stavano bene insieme.
Poi è chiaro, se mi doveste chiedere un parere su Men, non potrei  sostenere che sia un brutto film, tutt’altro. Per buona parte della visione mi ha incollato allo schermo grazie al suo fascino onirico e al mistero che nasconde. Pure il finale, per quanto goffo nel tentativo di spiegare le svolte di trama, ha qualcosa di intrigante.
L’impressione che mi ha lasciato, però, è quella di un’opera che voleva dire qualcosa di importante a tutti costi, a prescindere dalle idee che ne hanno animato la progettazione. Quasi che Garland si fosse sentito in dovere di donarci il messaggio.
Una scelta che secondo me ha rovinato il piacere generale di una pellicola che forse sarebbe riuscita a trasmettere concetti simili anche senza che il regista si sforzasse di renderli palesi.
Ma cosa posso saperne io?




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