Lo spettatore #248- Film del terzo tipo: Nope (2022)

Non so perché a volte mi vengono in mente certi paragoni, ma dopo aver visto Nope la prima cosa che mi è saltata in testa è stata che Jordan Peele potrebbe essere il vero nuovo Steven Spielberg, alla faccia di JJ Abrahms e di tutti gli scimmiottatori seriali. Chiaramente, ben consapevole della stupidaggine partorita dal mio stanco cerebro, mio sono subito schiaffeggiato da solo imponendomi lo sciacquo della bocca.
Ma sapete com’è: quando un’idea ti si insinua nel cervello, scacciarla diventa difficile.
Anche perché Peele lo conoscevo da prima di Nope e non mi era sfuggita la sua capacità di infilare argomenti senza considerare l’intrattenimento come un prodotto del demonio.
Get Out mi aveva divertito parecchio grazie al suo modo originale di interpretare il genere, alla svolta narrativa che ribalta tutto e alle inquietudini che si respirano prima che avvenga, senza che questi elementi andassero a oscurare la denuncia all’ipocrisia di certi ambienti imbellettati.
Con Nope il regista avanza un passo in più, perché arricchisce i contenuti della storia passando attraverso un’evoluzione dello stile, meno intimo e capace di conquistarsi l’intera superficie dello schermo.
Roba grossa che è riuscita a esaltare tutte le mie papille gustative, offrendomi uno spettacolo pieno e appagante come pochi altri hanno fatto negli ultimi anni.
Nope parla di tante cose, in dosi così abbondanti da non poter essere assorbite tutte in una singola visione. C’è l’orgoglio di una famiglia di neri che porta avanti un ranch dove si addestrano cavalli per il cinema chiaramente in pericolo a causa del sopraggiungere delle nuove tecnologie. C’è il rapporto con la natura e con i soldi, oltre che la stupidità nel ripetere sempre gli stessi errori solo in formato più grande. C’è la questione dell’ignoto, rappresentata dai dischi volanti, da quello che siamo abituati a pensare di loro e da quello che (nella finzione cinematografica quantomeno) sono per davvero.
Tutto costruito per far funzionare una storia fatta di personaggi a volte un po’ sovraccarichi che popolano questo fantasma di far west, un posto artefatto dove tutto si muove in funzione della finzione, tanto da spingere alcuni a sottovalutare l’impatto della realtà sulla vita vera.
Ma davanti a Nope soprattutto ci si diverte, questo ci tengo a dirlo. La storia è costruita benissimo con un crescendo del terzo tipo che forse è l’aspetto che più di tutti mi ha fatto ricordare il maestro Spilberg. Le inserzioni che raccontano la vicenda della scimmia sono infilate al punto giusto e disturbano a sufficienza da rappresentare quel monito sul rapporto con la natura che nessuno rispetterà. Ma soprattutto c’è la caccia finale che è uno spettacolo stupefacente per il ritmo che Peele riesce a dare agli avvenimenti e per le scelte estetiche impresse sullo schermo. La creatura è davvero una meraviglia in ogni sua metamorfosi e gli ultimi tre quarti d’ora del film si potrebbero anche guardare in piedi.

Non c’è molto altro da dire, se non che questo è un film che mi è rimasto dentro come pochi prima di lui. Magari Peele non sarà mai il nuovo Spielberg, del resto è anche un po’ presto per dichiarare qualcosa di simile, però finora è sempre stato capace di trovare la strada giusta per raccontare le storie. Spero per lui che sia sempre così. A voi dico di guardare Nope se non lo avete già fatto. Ringrazierete per il tempo passato assieme a lui.






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