Lo spettatore #246- Una simpatica zona residenziale: Vivarium (2019)

Avete presente quelle belle casette tutte uguali, in quei quartierini residenziali, con i pratini così curati da sembrare finti e le stradine tutte pulite? Non sarebbe un sogno vivere in un posto così? Forse no, almeno secondo Lorcan Finnegan.


Guardando Vivarium non ho potuto fare a meno di correre col pensiero a Dark City, antico e sottovalutato prodotto fantascientifico di Alex Proyas che, se vogliamo, partiva dagli stessi presupposti e forse sottintendeva la stessa morale.
È una vita che non vedo quel film, quindi potrei ricordare male, tuttavia mi viene in mente che la vera differenza tra le due opere sta nell’approccio all’argomento: se la pellicola di Poryas viveva sostanzialmente della sua trama grazie alle atmosfere noir e thriller che la permeavano, Vivarium mi è sembrato più orientato alla veicolazione del messaggio, scelta narrativa che, ormai si sarà capito, io odio.
Potrei anche essermela immaginata questa morale, ne sono perfettamente consapevole. Ma mi sembra anche l’unico motivo per il quale Viviarium sia stato girato in un certo modo seguendo determinati passaggi narrativi.

Vivarium è un film che sulle prime cattura l’attenzione, non gli si può levare questo pregio. L’inquietante agente immobiliare Martin, il villaggio deserto dalle case tutte identiche, il bambino dalla voce alterata, il senso di mistero, sono tutti elementi che concorrono ad avvicinare lo spettatore e anche se la scelta dei protagonisti di seguire quella sorta di Sheldon Cooper fuori di testa è quanto meno bizzarra, la voglia di capire come Finnegan se la gestirà è forte.
Peccato sia un’urgenza che duri pochissimo. Giusto il tempo per i nostri di entrare in casa e ogni tassello va al suo posto mentre la realtà nascosta tra i vialetti di Yonder diventa palese. Ma se anche non lo fosse stata, comunque il preambolo coi cuculi e il loro modo brutale di tutelare la prole spiega già tutto.
Per quello sostengo che Finnegan (che il film lo ha pure scritto) si è giocato tutte le sue carte sulla morale. Il regista parte dal concetto diffuso che vede la famiglia come scopo della vita e istituzione protettiva per gli individui che ne fanno parte e se ne dimostra piuttosto terrorizzato. Tutto ciò che prevede due cuori, una capanna e un bimbetto da allevare, lo vede come un’imposizione aliena alla natura umana, via certa per la decadenza fisica e il crollo emotivo, con una madre che diventa vittima delle pretese della creatura e un padre che, boh, scava all’infinito nel suo vuoto? No dai, magari si ossessiona con il lavoro fino a consumarsi l’esistenza pur di allontanarsi dal talamo nuziale.
Ma ripeto , magari tutta questa struttura nemmeno c’è e Finnegan ha solo voluto costruire il suo thriller fantascientifico infilandosi nella scia del gioiello dimenticato di cui parlavo lassù. Solo che, in quest’ultimo caso, l’operazione non gli è riuscita perché le trovate sono abbastanza prevedibili e al di là di un primo impatto efficace, il prodotto in sé dice poco (almeno a me).
Non che con il filtro della morale il film sarebbe più ficcante, questo lo voglio dire. Solo che almeno ne comprenderei le scelte (cosa tutt’altro che necessaria, sia chiaro).
Comunque ciao.



Commenti