Lo spettatore #243- Rassegnazioni a confronto: Il lungo addio (The Long Goodbye 1953, 1973)

Non molto tempo fa mi è capitato di vedere Il Lungo Addio nella versione di Robert Altman, un film che ha lasciato qualche traccia nella mia anima, ma che comunque faticavo a collegare al romanzo originale di Raymond Chandler. Un po' era l'ambientazione volutamente contemporanea della pellicola, ma a spiazzarmi fu soprattutto il finale, momento nel quale Marlowe commette un atto decisamente fuori dalle sue caratteristiche. La cosa mi infastidiva, non fatico ad ammetterlo, tanto che, giunto all'esasperazione, mi sono deciso a riprendere in mano il libro per capire come cavarne fuori qualcosa.

Il mio spaesamento si è rivelato giustificato, in quanto quello messo in scena da Altman era solo l'esoscheletro della storia più dolente tra quelle scritte da Chandler per il suo investigatore privato. Il romanzo, pubblicato nel 1953, si pone quasi come il capitolo conclusivo di un'intera era letteraria, quella dell'hard boiled che lo scrittore aveva contribuito a creare e che, giunti i favolosi anni cinquanta, sembrava non avere più spazio nella narrativa americana.
Ma si tratta soprattutto di un racconto riflessivo, nel quale l'autore pare mettere se stesso, i suoi demoni legati all'alcolismo (vero protagonista occulto della vicenda) e il consuntivo di un percorso complesso giunto alla fine.
In realtà Chandler lavorerà a un'ulteriore testo con Marlowe come protagonista, ma morirà prima di poterlo completare, così come accade a Wade durante la vicenda. La metanarrativa di Chandler si spinge a introdurre Marlowe all'interno dei meandri dell'editoria, mondo del quale lui non sa niente, ma che l'autore conosce molto bene. Sembra insomma esserci molto dello scrittore in questo libro, anche più di quanto non ci fosse di solito, cosa che rende Il Lungo Addio un prodotto diverso rispetto allo standard chandleriano.
Tuttavia quello che rimane più impresso (o che almeno a me ha fatto più effetto) è quella sorta di malinconia che supera la normale rassegnazione del detective. Si viene messi di fronte alla perdita che Chandler rappresenta attraverso l'ingiustizia, come se a smarrirsi fosse l'innocenza stessa del protagonista. Il che suona strano visto chi è Marolwe e quali percorsi ha affrontato nel suo mestiere.
Altman questo atteggiamento non se lo può permettere, perché con l'investigatore non ha lo stesso rapporto. Però lo spirito è quello, in un certo senso.
Il Marlowe portato in scena da Elliot Gould è un personaggio fuori tempo, uno che guida una macchina anni quaranta in una Los Angeles che ribolle di novità. Altman gli mette come vicine di casa una squadra di ragazze sempre mezze nude e strafatte, al quale il protagonista affibbia un lavoro diverso ogni volta che qualche curioso gli chiede chi siano. Vicine chiassose che cozzano con la solitudine tipica dell'eroe chandleriano, sempre piuttosto isolato nei luoghi che sceglie per vivere. Ma parte comunque dell'atmosfera stonata che lo avvolge.
Lo stile voluto dal regista e dal direttore della fotografia è quello tipico del poliziesco di quel periodo, con colori piatti tendenti al grigio e crea attorno al protagonista un'atmosfera ancora più straniante. Niente più luce tagliata che esce dalle veneziane e sassofoni tristi in sottofondo. Anche la rassegnazione è diversa nei settanta.
Per il resto il regista si limita a tenere i punti cardinali della vicenda, innestandoli con qualcosa che in realtà non c'entra niente. Ai ricchi capricci hollywoodiani, Altman preferisce la classica storia di gangsters violenti e imprevedibili, forse perché più utili a ritmare la parte centrale della vicenda. Ma così si vede costretto anche a variare tutto ciò che è il sentimento del protagonista, spingendolo a muoversi come un criceto in una gabbia piena di trappole. Una filosofia avvincente, ma che porta Marlowe fuori strada fino a fargli fare qualcosa che il suo omologo letterario non avrebbe mai concepito, perché a differenza di questo sapeva come incassare limitandosi a incidere una tacca nella sua anima.
Se il Marlowe di Chandler era finalmente troppo stanco di tutto quello che stava succedendo e forse disposto a lasciarselo alle spalle (anche se non lo dichiara mai), questo sembra più che altro perduto in una realtà che non è la sua, costretto a fare il Marlowe in un mondo che non sa cosa farsene di tipi come lui.  
Forse queste scelte rendono il film meno potente del romanzo dal quale rileva il nome, anche se l'impressione potrebbe emergere solo dentro la testa di uno come me, che adora il linguaggio di Chandler e l'hard boiled di cui è portatore.
Del resto parliamo comunque di due ottimi prodotti, con i quali non si sbaglia sicuramente e che hanno poco in comune se non il titolo e qualche personaggio.
Provateli entrambi e magari ne riparliamo.


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