Iuri legge per voi: Quattro dopo mezzanotte volume 2 (Four Past Midnight, 1990) di Stephen King
Il poliziotto.
Dev’essere per la biblioteca, con il
soffitto alto e l’atmosfera di austerità che il demone antagonista
del racconto voleva imprimerle. O forse sarà che contemporaneamente
alla lettura del terzo racconto dell’antologia QDM ero impegnato
tra gli spazi brutalisti del videogioco Control, con i saloni di
cemento armato così simili a tanti posti che ho visto con gli occhi
di questa faccia anche nella vita vera. Luoghi tutti diversi eppure
tutti uguali, figli di un’architettura che un tempo era considerata
avanguardia e che oggi trovo così destabilizzante.
Fatto sta che la prima parte di questo racconto l’ho vissuta con un carico di disagio che non saprei descrivere e che la prima volta che lessi non provai, sono sicuro di questo perché non ricordavo nulla del testo.
Il re ha gioco facile nell’andare a ripescare le paure infantili per sconvolgere la vita degli adulti, ma non è questo che mi ha fatto stare sulle spine. È piuttosto l’idea di un mondo dietro il mondo, dell’irreale che si avventa sul reale, dell’inquietudine per qualcosa che succede, ma che sembra impossibile.
Poi la storia è costretta a svilupparsi ed essendo un’opera breve, forse perde per strada quella forza che nelle prime pagine mi ha fatto riflettere sull’opportunità di proseguire. Diciamo che King lascia che i pezzi combacino spingendo un po’ la mano sulla capacità dei suoi personaggi di adattarsi al paranormale e di accettarlo come una possibilità. Questo è uno degli aspetti nella scrittura del Re che mi convincono meno, ma ammetto che restare sul vago non avrebbe portato questa storia verso il suo finale, che diverte anche se smette di stupire.
Fatto sta che la prima parte di questo racconto l’ho vissuta con un carico di disagio che non saprei descrivere e che la prima volta che lessi non provai, sono sicuro di questo perché non ricordavo nulla del testo.
Il re ha gioco facile nell’andare a ripescare le paure infantili per sconvolgere la vita degli adulti, ma non è questo che mi ha fatto stare sulle spine. È piuttosto l’idea di un mondo dietro il mondo, dell’irreale che si avventa sul reale, dell’inquietudine per qualcosa che succede, ma che sembra impossibile.
Poi la storia è costretta a svilupparsi ed essendo un’opera breve, forse perde per strada quella forza che nelle prime pagine mi ha fatto riflettere sull’opportunità di proseguire. Diciamo che King lascia che i pezzi combacino spingendo un po’ la mano sulla capacità dei suoi personaggi di adattarsi al paranormale e di accettarlo come una possibilità. Questo è uno degli aspetti nella scrittura del Re che mi convincono meno, ma ammetto che restare sul vago non avrebbe portato questa storia verso il suo finale, che diverte anche se smette di stupire.
Il fotocane.
Veniamo al dunque, con la storia che mi
ha convinto a dare una nuova opportunità a questa raccolta, molto
più fortunata nella prima parte che nella seconda, temo.
Pur non potendo contare su suggestioni così efficaci (ma questo dipende più da me che dall’autore), anche questo quarto racconto parla di mondi dietro altri mondi, con un inizio scoppiettante e un finale pirotecnico come solo a Castle Rock sanno mettere in scena.
L’idea di una macchina fotografica Polaroid che stampa le fotografie di qualcun altro è in effetti intrigante, ma anche qui King si lascia sedurre da alcune semplificazioni nel momento in cui la sua storia deve andare avanti. Diciamo che se l’attenzione fosse stata posta sullo strumento e sui suoi prodigi con maggiore enfasi (ad esempio spiegando chi fosse il fotografo o se fosse esistita per davvero la scena ritratta, ad esempio) forse Il Fotocane sarebbe potuto essere davvero inquietante. Ma siamo dalle parti della narrativa breve, per altro scritta da uno che tra i tanti pregi che gli riconosco, di sicuro non ha il dono della sintesi. Per cui la storia è dovuta proseguire, anche piuttosto spedita, rinunciando in parte alle atmosfere (evocate solo brevemente durante i sogni) e lasciandosi andare a un finale molto americano, molto anni ottanta e molto da cinema per ragazzi di quel periodo. Un piccolo brivido dove tutto è bene ciò che finisce bene.
Più o meno.
Pur non potendo contare su suggestioni così efficaci (ma questo dipende più da me che dall’autore), anche questo quarto racconto parla di mondi dietro altri mondi, con un inizio scoppiettante e un finale pirotecnico come solo a Castle Rock sanno mettere in scena.
L’idea di una macchina fotografica Polaroid che stampa le fotografie di qualcun altro è in effetti intrigante, ma anche qui King si lascia sedurre da alcune semplificazioni nel momento in cui la sua storia deve andare avanti. Diciamo che se l’attenzione fosse stata posta sullo strumento e sui suoi prodigi con maggiore enfasi (ad esempio spiegando chi fosse il fotografo o se fosse esistita per davvero la scena ritratta, ad esempio) forse Il Fotocane sarebbe potuto essere davvero inquietante. Ma siamo dalle parti della narrativa breve, per altro scritta da uno che tra i tanti pregi che gli riconosco, di sicuro non ha il dono della sintesi. Per cui la storia è dovuta proseguire, anche piuttosto spedita, rinunciando in parte alle atmosfere (evocate solo brevemente durante i sogni) e lasciandosi andare a un finale molto americano, molto anni ottanta e molto da cinema per ragazzi di quel periodo. Un piccolo brivido dove tutto è bene ciò che finisce bene.
Più o meno.
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