Lo spettatore #220- Gli eroi di una volta: Il Colosso Di Rodi (1961)

Credo che tra gli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso il peplum fosse il corrispettivo dei moderni film con i supereroi. Chiunque desiderasse guadagnarsi un po' di spazio nel mondo di celluloide doveva partecipare ad almeno una di queste pellicole. Infatti i post su Facebook risalenti a quegli anni sono un fiorire di: i miti greci hanno rovinato il cinema, non se ne può più di queste tuniche e di questi sandali, sono tutti uguali, visto uno visti tutti.
Provate a cercare se non ci credete.

Ovvio, non tutte le critiche degli internauti di metà novecento erano infondate, così come non lo sono quelle attuali. L'adattamento per il cinema dei miti biblici o grecoromani ha portato spesso a trame ingenue, nelle quali il romanzo rosa era una tassa da pagare più che un'esigenza narrativa e l'eroe dava l'idea di avere tutti gli astri dalla sua parte qualsiasi cosa facesse.
Ma erano prodotti che funzionavano e, allora come oggi, le case di produzione mettono su pellicola ciò che piace al pubblico.
Però è vero, anche nei generi più gettonati (e per questo sfruttati fino all'osso) esistono perle di rara bellezza, lavori da portare sul palmo come esempi di grande cinema, spesso perché affidati a registi abilissimi a giocare con le convenzioni per mettere in scena quello che vogliono.
Non è il caso del film di oggi però. Spiace dirvelo così.
A Sergio Leone l'esordio col peplum probabilmente toccava. Gli avranno detto che se voleva fare i suoi film coi cowboy che non interessavano più a nessuno, prima doveva dimostrare di saper portare a casa il pane. La mia è solo un'ipotesi, ovviamente, derivata dal fatto che poi il grande regista non ha più toccato un sandalo nemmeno con il bastone. Tuttavia quello che è sicuro è che Leone sapesse già cosa cercavano gli spettatori da un'opera di questo filone.
All'epoca l'unico modo di godersi un film era quello di andare in sala e sedersi sulla poltroncina lasciando che la magia del grande schermo facesse il suo lavoro. Ecco, con questa consapevolezza, Leone riempì la pellicola di scenografie imponenti dentro alle quali infilò danze sensuali, battaglie zeppe di comparse, cataclismi naturali e lo spettacolare Colosso a dominare il porto.
Una meraviglia visiva che serviva ad appagare il pubblico, forse distraendolo da una storia buttata lì tanto per arrivare alla fine.
Inutile dire che oggi come oggi, la trama che caratterizza Il Colosso Di Rodi possa lasciare un pochino perplessi.
Innanzitutto il tributo che la pellicola paga alla sua spettacolare estetica è un ritmo alquanto saltellante. Perché le strutture messe in piedi sono maestose, ma per mostrarle bene occorrono scene danzerecce che uccidono il fluire della narrazione. Ma soprattutto lascia stupiti la cretinaggine acuta che devasta la mente del protagonista, uno degli esseri più idioti che mi sia capitato di vedere agire su grande schermo, che fa più danni della grandine e poi se ne esce dal film anche con l'espressione soddisfatta di chi ha salvato la popolazione. Anche se, va detto, non è che i comprimari agiscano molto meglio di lui, quindi nel marasma di scemenze le sue sono solo parte del mucchio.
Certo è che vendermi la storiella finale come lo sbocciare di un grande amore e sentire il capo dei rivoltosi dire a Dario che per loro ha già fatto troppo (senza alcun accenno di sarcasmo) dopo che li ha praticamente condannati allo sterminio, sono cose dure da mandare giù.
É vero, Il Colosso Di Rodi è un film della sua epoca e si porta dietro tutte le ingenuità tipiche di quel cinema. Occorreva che gli eroi vincessero, anche a costo di forzare un poco la mano, che si portassero a casa tutte le belle del villaggio ma che sposassero la più pura (anche se ci avevano parlato per otto secondi in tutto) e che gli spettatori si stupissero di fronte alle stupefacenti opere dei tecnici di Cinecittà.
Un cinema diverso, che il mio sguardo cinico, accaldato e stanco non sarà mai capace di apprezzare fino in fondo.
Ma amen.






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