Lo spettatore #218- Matti in un mondo di matti: American Psycho (2000)

Questo è uno di quei film che ho visto a breve distanza dalla sua uscita in sala e con il quale per anni ho vissuto un rapporto conflittuale. Insomma, a farvela breve non mi era piaciuto.
Ma a oltre vent'anni di distanza e dopo aver letto il romanzo dal quale è stato tratto (due volte, e si sta scaldando a bordo campo per la terza), ho pensato fosse giunto il momento di dargli un'altra occasione. Anche perché più di qualcuno me ne ha parlato bene, quindi ci sta che io sia stato troppo frettoloso.
So benissimo che è sbagliato mettere a diretto confronto un romanzo e il film che ne è stato tratto. Si tratta di linguaggi e di tempi diversi, di interpretazioni personali che si soffermano sui dettagli, perché catturare l'intera essenza della narrazione è semplicemente impossibile.
Per di più American Psycho è un film corto, di quelli che facevano una volta, che ha un'ora e mezza da spendere e deve forzatamente scegliere qual è l'argomento più importante da sviscerare (termine direi adatto al film di oggi) per evitare di diventare un cronologico elenco della spesa.
Lo sa la regista Mary Harron, ovviamente, così come la sceneggiatrice Guinevere Turner, che insieme scelgono di focalizzarsi sulla follia di Patrick Bateman (che avrà per sempre la faccia di Christian Bale), decidendo di esordire con un monologo nel quale il protagonista rivela che tutto il suo apparire è la maschera che indossa per tenere celato l'animale in lui.
Non ricordo se Ellis nel suo romanzo scegliesse una frase del genere, ma lo svolgimento comunque lo esclude. Perché il Bateman del romanzo è la sua maschera, essendo questi due lati fusi in un unico vuoto che è la rappresentazione plastica del suo stesso mondo. Qui, ad esempio, tutti confondono Patrick con qualcuno di altro, dandoci l'impressione che sia lui ad avere un'opinione troppo alta di se. Nel libro invece tutti si confondono con tutti, mostrando quanto quegli esseri narcisi e sempre preoccupati del loro aspetto, siano in realtà tutti identici, frullati dentro una vita senza sosta, con la cocaina a sostituire il sonno e un iperattiviità che esaurisce anche menti giovani come quelle dei broker della Wall Street anni ottanta.
Infatti il povero Bateman, fin li a quanto pare così capace di dividere le sue anime, viene travolto da un esaurimento nervoso che gli piomba addosso sotto forma di concorrenza spietata. Ma se nello scritto di Ellis (più vicino temporalmente all'epoca degli yuppies) a rendere disturbante il tutto è il contesto nel quale gli eventi si svolgevano, nel film a scuotere è l'impianto allucinatorio che lo pervade.
Nulla all'interno della pellicola è certo, forse nemmeno che Bateman sia un vero assassino. Tutto avviene in un ambiente ovattato, nel quale gli omicidi del protagonista semplicemente scompaiono senza che nessuno si chieda cosa sia successo. Bateman uccide, strazia , amputa, eviscera, riempie gli eleganti appartamenti di New York di sangue, eppure ogni giorno tutto ricomincia come se niente fosse. Lui stesso ricomincia come se niente fosse. É questo elemento delirante a rendere intrigante il racconto di Harron, che in un certo senso afferra il protagonista di Ellis, ma lo rende più responsabile di ciò che fa. Il resto dei personaggi è sicuramente fuori di testa, ma non come lo è lui. Persino al segretaria Jean (Chloe Sevigny), pur se perdutamente infatuata del suo capo, si dispera quando ne intuisce la pericolosità.
L'oscurità di Bateman è puramente privata, esacerbata dalle pressioni esterne, certo, ma comunque estranea da esse. Oltre che resa palpabile dalla regia di Harron, gelida e brutale come il suo protagonista.
Quindi dopo vent'anni posso dire di essere venuto a patti con questa visione? Non lo so. Obbiettivamente il film me lo sono goduto di più adesso che a quei tempi. Però non so quanto di questo apprezzamento sia figlio del lavoro di Harron o quanto merito vada attribuito alla lettura del romanzo, che è diventato immediatamente uno dei miei preferiti di sempre, scritto con una lucidità che da un ventisettenne non mi aspettavo (ma a quei tempi di scrittori americani giovani e zeppi di talento non c'era carestia).
Questo in effetti è un tema da tenere in considerazione.


Commenti

  1. A me il film è sempre piaciuto, però vorrei leggere anche il romanzo per capirci di più (e forse apprezzarlo in modo differente!)...

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    1. Ha un punto di vista leggermente differente. Vale assolutamente la lettura.

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