Lo spettatore #205- Vent'anni fa era tutto diverso, o forse no: Magnolia (2000)

Più di vent'anni fa un giovane Iuri si sedeva in sala inconsapevole della malia che il film di oggi avrebbe esercitato su di lui. Ma per un essere umano vent'anni sono un'era geologica, durante la quale i gusti si evolvono, le sensibilità si stratificano e le qualità richieste a un prodotto possono mutare.
Alla luce di tutto questo verrebbe da chiedersi perché mai, perdio, io abbia aspettato tutto questo tempo prima di prendere in mano la situazione e far fare un altro giro a un film che a quei tempi mi lasciò letteralmente stupefatto.
Ecco, vent'anni fa le tre ore e zerotto minuti richiesti da P.T. non rappresentavano alcuna forma di ostacolo per quel baldanzoso giovanotto. Oggi mi terrorizzano.
Eppure il fatto che a distanza di tanti lustri mi ritrovassi ancora a pensarci poteva significare soltanto che Magnolia è uno di quei film che non finiscono ai titoli di coda. Quindi ho deciso che era ora di finirla di star li a ricordare quanto fosse bello avere vent'anni (non lo era, fidatemi di me che so di cosa parlo) e che fosse giunto il momento di riprendere in mano la questione, durata o non durata.
Ho ritrovato il film che ricordavo, in effetti. Un prodotto assai pregevole, reso indimenticabile dal gusto estetico di P.T. Anderson, ma non così criptico come mi sembrò all'epoca. Magnolia richiede la vostra attenzione (abilità non facile da mantenere per tre ore e passa di lungometraggio, me ne rendo conto), ma in realtà svela le sue intenzioni abbastanza presto.
Si tratta di una pellicola religiosa che non utilizza simboli religiosi (o quasi). Ma argomentiamo va là.

Sono il vizio e la fragilità a guidare i personaggi che si intrecciano nelle nove storie di cui la pellicola è composta. Ognuno di loro viene sorpreso dal regista nel momento in cui sta toccando il fondo. Per la stragrande maggioranza di costoro è il tempo della punizione e del pentimento. Tutti assaggiano l'apice e il baratro, non sembra esserci sfumatura in questo breve percorso che ci viene mostrato. Anche se Anderson lo racconta in maniera delicata.
Però esiste il perdono come virtù alla quale assurgere per avere salva la propria anima. Un perdono sincero e dettato dal cuore, non una cosa di facciata. Chi meglio di un bambino del ghetto, di un poliziotto fortemente dedito al suo mestiere e di un infermiere che si cura dei malati terminali potrebbe rappresentare un ideale così puro? Io no di sicuro. Guarda caso la seconda e la terza figura sono anche spesso protagoniste nei drammi televisivi che le serie ci portano sullo schermo, possibilmente nei panni dei salvatori.
Tre personaggi che usano il loro potere salvifico proprio dopo una calamità da antico testamento. Una pioggia di animali che spinge tutte e nove le storie verso una unica direzione: la redenzione.
Se tutto ciò non è religione non so come definirlo.
Se vi raccontassi che all'epoca fu questo a colpirmi, sentireste l'odore di scarico fognario invadere l'aria attorno a voi, perché sarebbe una enorme str.. bugia.
A quei tempi restai ammaliato dal modo in cui i nove racconti scivolavano uno dentro l'altro, qualità capace di impartire un ritmo notevole alla pellicola, tanto da rendere quel muro di tre ore facilmente sormontabile. Poi c'è la musica, autentica protagonista aggiunta alla messa in scena di P.T. Il regista riesce a infilare veri e propri videoclip all'interno della sua pellicola, aiutando moltissimo il fluire della narrazione.
Certo, servirebbero uno schermo grande e un impianto potente per godere appieno della maestosità di quest'opera, perché fu pensata come pellicola da godere in sala e si vede. Forse è per questo che vent'anni fa uscii dal cinema bello stordito. Dallo schermo di riserva sfruttato questa volta l'impressione non è stata la stessa, ma ho comunque vissuto sulla magniloquenza di riporto.
Il tempo mi ha insegnato che questo non è probabilmente il lavoro più riuscito di P.T., nonostante la quantità indicibile di interpreti di talento che popolano le sue nove storie, la capacità non secondaria del regista di far recitare Tom Cruise e tutto il gioco interpretativo che si porta dietro una volta completata la visione.
Resto convinto che una opportunità se la meriti, a patto di non farsi scoraggiare dalla sua lunghezza. Capirei chi, vedendo le tre ore stampate in copertina decidesse di rinunciare. L'ho fatto anche io per tanti anni nonostante alla prima visione mi fosse piaciuto così tanto. Ma fidatevi, una volta davanti allo schermo il tempo sembrerà scomparire.




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