Lo spettatore #204- Inquietudini profonde: La Casa Dalle Finestre Che Ridono (1976)

Ci sono luoghi dove l'orrore vive a fianco dell'uomo. Un orrore ancestrale, radicato nella terra e da sempre compagno della superstizione che si illude di scacciarlo. Un orrore che pretende adepti, circoli chiusi dai quali nessuno può uscire e dai quali ogni straniero è bandito. Un orrore che nessuna tecnologia o illusione di modernità può dissipare.
Quei luoghi si chiamano campagne.
La Casa Dalle Finestre Che Ridono esce avvolto dall'ombra lunga del giallo all'italiana. Con il genere condivide una sceneggiatura volutamente imprecisa e la voglia di costruire inquietudine attraverso le atmosfere.
A differenza dei blasonati colleghi, però, Avati sceglie ambientazioni meno universali. Niente grandi e anonime città e niente attori stranieri. La paura si nasconde tra i filari e lui lo sa.
Casolari semi abbandonati, un paesino e una comunità ristretta sono tutto ciò che serve per mettere su schermo la sensazione di trappola che si chiude sul protagonista.
Protagonista che, ovviamente, è uno che viene da fuori, slegato dalla ritualità di un borgo che nasconde le proprie deviazioni dalla vista di chiunque. Ma il sindaco, forse perché diverso dagli altri e abituato a lottare per ottenere rispetto, decide di averne abbastanza di questa clausura soffocante. Con la scusa del turismo invita un pittore a restaurare un affresco disegnato sulla parete della chiesa. Non serve dire che l'autore originale dell'opera fosse un personaggio inquietante, sulla cui fine aleggia un segreto che dentro il paese si vuole mantenere tale a tutti i costi.
Il film si muove sui misteri che i paesani proteggono e spinge sull'indagine del protagonista che, in quanto restauratore, vorrebbe conoscere qualcosa di più sul maestro che ha dipinto quell'opera dall'aspetto disturbante.
C'è un che di horror dentro la pellicola, se non altro a livello di suggestioni, il che permette a tutta l'operazione di funzionare alla grande. Avati conta sull'aspetto grottesco della sua messa in scena, andando a ripescare usi e costumi contadini, ma caricandoli all'eccesso, costruendo le atmosfere folk di cui ha bisogno per gettare nel panico il pittore e la sua bella. Ma soprattutto il regista, come in ogni classico del genere, ci chiede di non formalizzarci troppo sui comportamenti dei personaggi. Io, per dire, al momento della telefonata avrei fatto su la mia roba e sarei tornato a casa, tanto non mi pareva un lavoro con il quale farsi ricchi.
Per altro la casa nella quale il restauratore si trova a vivere è terrificante anche solo a una prima occhiata. Spoglia, gelida, cadente. Un luogo nel quale nessuno vivrebbe serenamente. Eppure lui la perlustra incuriosito dagli strani rumori che si sentono al suo interno.
Solo a pensarci mi si alzano i peli come gli aculei di un istrice.

Avati sa due cose. Una è che i soldi per realizzare il progetto sono quelli che sono. Due, che il terrore è frutto dell'esperienza vissuta da bambini. Quindi il nostro protagonista è in realtà come un bimbo costretto in una situazione sulla quale non ha alcun potere di fuga.
Così il regista lavora sull'ostilità che lo avvolge. Sulla sensazione di essere uno straniero di fronte a una comunità chiusa. Sulla curiosità di scoprire cosa si nasconde dietro alla pesante tenda che tutti gli chiudono davanti.
Lo spettatore si lascia trascinare dentro, aiutato da colori che fanno sembrare tutta la vicenda una vecchia foto color seppia. Avati sa quali tasti toccare e li sfiora tutti, lasciando che il disagio ci faccia spostare sul divano, disturbati da qualcosa che va oltre ciò che la sceneggiatura racconta.

Non è certo l'esito della vicenda a restare impresso, ma la strada percorsa per arrivarci. Il quadro, i rumori, le minacce (velate o manifeste che siano), i segreti e il muro di omertà che qualcuno, stanco dello status quo, vorrebbe rompere, pagandone infine le conseguenze. Ma soprattutto lei, la casa (che non è quella con le finestre che ridono), autentica manifestazione maligna, capace di ribaltare il concetto di rifugio sicuro e rappresentazione fisica della perversione e dell'orrore più recondito.
Di tutta l'esperienza sarà lei a tormentare i vostri incubi e a farvi innamorare perdutamente di questo film, tanto da volerne ancora e ancora.
Al punto che Pupi Avati vi ha accontentato girando il Signor Diavolo.
Ma questa è un'altra storia.
Forse.






Commenti

  1. Sulla tua chiusa finale, direi che al pubblico bisogna ricordare la massima: attenzione a quello che desideri. Sul film di oggi nulla da dire, in una classifica ipotetica è uno dei miei film nostrani del cuore ;-) Cheers

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