Lo spettatore #203- Innumerevoli tentativi di imitazione: Perfetti Sconosciuti (2016)

Di recente ho scoperto che Perfetti Sconosciuti è il film italiano che vanta il maggior numero di imitazioni all'estero. Dal canto mio, prima di ricevere questa notizia, non ho mai provato troppa curiosità per la pellicola di Paolo Genovesi. Ricordo che ai suoi tempi ebbe un certo riscontro, ma raramente vado d'accordo con pubblico e critica, quindi non ho voluto dare peso ai pareri freschi di sala. Certo, alla luce dei dati attuali potrei essermi sbagliato. Quindi forse è giunto il momento di approfondire la questione.

L'aspetto del prodotto ricorda quello di una piece teatrale trasportata sullo schermo. Unica location o quasi, sette personaggi attorno a un tavolo, il convitato di pietra che diventerà importante più avanti nella storia e tante chiacchiere messe insieme in un crescendo che ha l'obbiettivo di traslare dolcemente l'umore dalla commedia al dramma.
Il regista esordisce con una presentazione breve ma efficace della fauna, lascia intuire l'esistenza di una certa tensione, infine porta tutti a questa famosa cena con simbolica vista sull'eclissi lunare dove può metterli di fronte alla realtà della loro esistenza.
Qui salta fuori la prima svolta forzata degli avvenimenti. Ovvero l'accettazione da parte dei commensali di partecipare a un gioco le cui ripercussioni sono palesi fin da subito. Decidere di sbandierare i cazzi propri rendendo pubblico il contenuto dei cellulari (pur sapendo quante cose ognuno di loro ha da nascondere) è una idea pessima. Ma possiamo scegliere di credere, almeno fin qui, alla messa in scena, adducendo la motivazione della trasparenza che, se rifiutata, farebbe nascere mille dubbi sull'altro elemento della coppia.
Genovesi può contare su un gruppo di interpreti di spessore. Dal saggio Giallini alla Smutinak (che nel tempo ha dimostrato di essere più della modella della pubblicità dei telefoni), dal dimesso Mastandera alla esagerata Foglietta, dall'onnipresente Leo alla timida Rohrwacher, fino al solitario Battiston. Una squadra di attori piuttosto in voga nel cinema italiano di quegli anni (e non solo di quegli anni), garanzia di successo al botteghino, ma anche di un certo dinamismo nella recitazione che, in un lavoro così, è un valore da tenere in considerazione.
Durante la visione ci si diverte, ma lo scopo principale è quello di scivolare all'interno di un'atmosfera pesante che possa distruggere la piacevolezza di una serata tra amici per trasformarla nella fine di ogni rapporto esistente. I momenti tosti non mancano, anche perché l'ambientazione scelta da Genovesi è molto simile a quella che molti di noi hanno vissuto durante le cene conviviali (eventi precedenti la pandemia nei quali i nostri antenati amavano rafforzare lo spirito del branco e sciogliere le tensioni dentro boccali traboccanti vino o birra a seconda degli individui scelti per il rito).
Ma se inizialmente si poteva passar sopra alla forzatura necessaria a dare il via alle danze, superare senza sguardi perplessi le ulteriori evoluzioni della vicenda diventa sempre più difficile. Ovviamente sulle prime le verità che emergono dagli oracoli tecnologici sono innocue, utili solamente a creare la routine. Ma siccome in queste fasi lo spettatore si annoia come una belva, è necessario passare al piatto forte, in un crescendo che diventa sempre più assurdo a ogni minuto che passa.
Perché, per quanto idiota sia, il gioco sulle prime potrebbe anche sembrare divertente. Ma dopo il fatidico messaggio di Lucio e le conseguenze che si porta appresso, insistere nel proseguire è un inutile accanimento che un gruppo di esseri pensanti eviterebbe di infliggersi.  
Vero, Genovesi piazza quel finale con il quale forse rimette a posto le assurdità della sceneggiatura, riportando le scelte dei protagonisti su un sentiero meno tortuoso. Ma prendere una decisione del genere è comunque pericoloso, perché tra il far sentire gli spettatori lusingati o raggirati spesso passa un foglio di carta velina. Specialmente se per rendere la propria storia appassionante si decide di non preparare le svolte.
Ma farò finta di niente, anche perché qui il punto è un altro. Com'è che all'estero questo prodotto viene sfruttato così tanto? E' davvero così bello da generare investimenti senza apparente fine?
Ora che l'ho visto posso dire che non credo. Si tratta di una commedia nera che deve fare i conti con più di un passaggio scricchiolante, totalmente nelle mani di un gruppo di attori che sanno fare il loro mestiere imprigionati in personaggi poco sfumati che spesso li costringono ad alzare troppo il registro. Una visone piacevole, ma non indimenticabile.
Il punto è che un film così costa poco e parla di argomenti facilmente intercettabili. Quando spendi poco è tutto guadagno, diceva Roger Corman.


Commenti

  1. Io avevo visto anche il remake di De La Iglesia (che poi parlare di remake, nel caso spagnolo, è improprio. A quanto pare la sceneggiatura è finita anche nella sede di telecinco ed è stata solo questione di tempo, Genovesi è stato più rapido a realizzare il film) e, pur essendo un film assai minore all'interno della filmografia del regista, sfrutta un aspetto "fantastico", esoterico se vogliamo, che alla versione italiana manca, confermandosi più riuscita. A parte questo, è un film facile da replicare e adattare a vari contesti e culture, ecco perché piace all'estero. Io, onestamente, l'ho trovato robetta.

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