Iuri legge per voi: Oltre il buio della notte (Against The Fall of Night, 1953-1990) di Arthur Clarke e Gregory Benford

Ammetto che il mio primo approccio con l'opera di Clarke non è stato facile. Oltre Il Buio Della Notte è un libro indubbiamente interessante, con la prima parte curata da Clarke e la seconda da Gregory Benford a distanza di sessant'anni che racconta una storia di fantascienza originale, fortemente calata nello spirito del suo tempo e piena di riferimenti all'ipotetico futuro della società umana.
Ma che fatica però.

La storia è ambientata in un remoto futuro nel quale i resti dell'umanità sopravvivono in due città incastonate sulla superficie di un pianeta desertico. Da una parte c'è la decadente e tecnologica Diaspar, dove gli individui vivono per migliaia di anni ma sembrano aver perso ogni spirito di innovazione. Dall'altra una sorta di contea abitata da umani che privilegiano il contatto con la natura, conservando la loro mortalità e rifiutando gli ammenicoli del progresso. Due civiltà che volutamente si ignorano, arrivando a negare l'esistenza l'una dell'altra pur di mantenere intatte le proprie prerogative.
In questo contesto si inserisce Alvin, abitante di Diaspar ancora piuttosto giovane (per gli standard di quella città almeno) che animato da una curiosità estinta nei suoi simili, tenta di uscire dalle alte mura della megalopoli per vedere oltre.
Naturalmente ci riuscirà e insieme alla riapertura di un contatto diretto tra i due luoghi scoprirà anche perché un mondo un tempo così vitale sia sprofondato nel crepuscolo.
Clarke propone un dualismo molto discusso (anche oggi, va detto) sul benessere figlio della tecnologia, rapportato al rispetto assoluto della natura. C'è della morale in questo, ma nemmeno troppa. Perché se la Diaspar del suo racconto è una città ormai prossima alla fine, è altresì vero che dall'altra parte gli abitanti di Shalmirane seguono rituali anche crudeli per preservare il loro isolamento. Diciamo che Clarke prova a non giudicare le derive delle due comunità, limitandosi a raccontarle all'interno di una storia che rifiuta il dettaglio e scritta come un racconto per ragazzi (cosa che forse è).
Uno stile che mi ha fatto attaccare poco al romanzo, con in più quel finale che porta al lettore uno sviluppo interessante, che può arricchire il dibattito di cui sopra, ma che rischia anche di fargli sfuggire il nodo, prendendo in mezzo entità astratte di pura energia.
Comunque fin qui tutto bene o quasi. I problemi sono venuti dopo.

Nel secondo blocco, scritto da Benford ma approvato dallo stesso Clarke, la storia vira decisamente in un'altra direzione. Sono passati anni dalla prima parte del racconto e l'umanità sembra aver intrapreso una collaborazione capace di riportare la vita sulla Terra. I deserti si ritirano, sostituiti da zone verdi e da mari sempre più vasti. L'uomo appare capace di ricreare la vita per come era e per come è sempre stata, anche fondendo ere geologiche e specie che non avevano mai convissuto. Tra queste una sorta di homo primitivo sufficientemente intelligente da organizzarsi in piccoli gruppi, ma non ancora abbastanza evoluto da potersi paragonare ai grandi creatori che fanno il bello e il cattivo tempo (letteralmente). Una rappresentante di questa comunità, per qualche motivo, diventa interessante per la mente cosmica che già a suo tempo aveva portato all'estinzione di massa. Il romanzo è quindi una sorta di avventura dove questa donna aiutata dall'Alvin del primo blocco e da un procione intelligente (?) dovrà sfuggire agli interessi di tale creatura e, al contempo, trovare un modo per renderla inoffensiva.
Procione a parte, scelta che ho trovato assai infelice e che fornisce squarci di comicità temo non voluti, la storia ha tutte le potenzialità per presentarsi avvincente.
Invece non lo è, perché Brenford prende una strada diametralmente opposta rispetto a quella di Clarke e infarcisce il racconto di tecnicismi e pipponi filosofici (spesso espressi dal procione, dio santo) che ammorbano la lettura. Ve lo dico, in questa seconda parte mi sono trovato spesso addormentato col tomo in mano, avvolto da un sonno così profondo che nemmeno a sei mesi dormivo così bene.
Un mattone per me indigeribile che non ho mollato solo perché sono abituato a portare in fondo qualsiasi libro che mi ritrovo per le mani.
Insomma, non il modo migliore per iniziare con uno degli autori più significativi del suo genere e che quasi mi ha fatto gettare subito la spugna. Poi però su uno scaffale ho trovato quello che forse è il suo romanzo più celebre e al quale non mi sono sentito di rifiutare una possibilità.
Le cose in quest'ultimo caso sono andate decisamente meglio. Ma questa è un'altra storia.

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