CDC #178- Anime nello spazio: Ad Astra (2019)

 "Ne avevo abbastanza delle vostre piccole idee" è la frase che più di ogni altra riassume il concetto che sta alla base di Ad Astra.
Poche parole, ma così potenti da non aver bisogno del resto. Ma naturalmente il resto c'è.
Stanley Kubrik quella volta realizzò un capolavoro senza tempo e siamo d'accordo. Ma i danni causati dalla sua opera al genere non sono mai stati quantificati. Certo, la fantascienza impegnata esisteva anche prima e pure io di solito approvo i sottintesi infilati tra le righe dei racconti.
Ma cribbio, qui l'esplorazione interplanetaria è evidentemente un mero pretesto per una storia che potrebbe farne benissimo a meno. Se James Gray, per dire, avesse voluto raccontarmi un road movie con gli stessi personaggi inseriti all'interno delle medesime dinamiche, il risultato sarebbe venuto fuori uguale.
Certo, i colori scuri, le lucine soffuse e il silenzio soffocante dello spazio aiutano il regista a costruire l'atmosfera, ma la sensazione di forzatura io, almeno a tratti, l'ho avvertita.
Anche se, lo ammetto, qualcosa di interessante nell'estetica di questa visione esiste.  
Ad Astra è un prodotto figlio del suo tempo e (forse soprattutto) delle sue ambizioni. Un pargolo che quindi fa dei suoni ovattati la propria colonna sonora e che prova a punteggiarla con qualche critica buttata là per vedere cosa produce.
La Luna, per esempio: satellite che oggi guardiamo come possibile meta per la scienza e che nel futuro non troppo remoto immaginato da Gray è già andata oltre. Diventata cioè sede abusata di basi e terreno predatorio per pirati cosmici. Scelta che dal lato visivo consente al regista una battaglia nell'ovatta talmente strana da non sapere se mi sia piaciuta o meno, mentre sotto l'aspetto narrativo ci dice che, per quanto illuminati possano essere i nostri sguardi sul domani, arriverà sempre il momento nel quale la mediocrità della nostra specie rovinerà tutto quanto.
Una visone crepuscolare dell'avvenire, indubbiamente. Che tra l'altro si ripercuote su tutto ciò che è progresso all'interno della pellicola. Quasi a ricordarci che siamo in grado di far tutto, persino colonizzare l'intero sistema solare, ma l'atteggiamento autolesionistico che ci contraddistingue alla fine toglierà la passione anche ai migliori di noi.
Che sia per quello che papà Clifford McBride decide di perdersi nel nero dello spazio? Del resto lui è il pioniere della ricerca. Quello che ha sturato il lavandino degli investimenti grazie alle sue scoperte. Ma anche colui che ha forse disilluso l'umanità, nel momento stesso in cui i pianeti sono diventati sassi sospesi nel cielo e poco più. Del resto si fa l'abitudine a tutto e la meraviglia dura il tempo della prima volta. L'uomo dalle fattezze di Tommy Lee Jones, invece, vuole sempre cose nuove, esaltanti, emozionanti. Cose che tra i mediocri umani non potrà mai trovare.
Eppure suo figlio, nonostante ci tenga davvero molto a farci sapere quanto sia triste dopo essere stato abbandonato, accetta di cercarlo. Certo, c'è la possibilità che Tommy Lee faccia saltare il pianeta Terra con la sua ultima marachella, ma mica è quello il motivo più importante.
La cosa che conta e tappare il buco emotivo. Riallacciare quel filo con il genitore immaturo che ha pensato ai propri obbiettivi invece di riversare le energie totalmente sulla famiglia. Mostrare la faccia sorridente (beh dio, in senso figurato. E' pur sempre Brad Pitt che non ammicca dal 1984), a colui che ha osato allontanarsi per perseguire il suo scopo.
Ma soprattutto, afferrare la propria identità. Dimostrare a se stessi di non essere più il figlio di, ma di poter accettare le proprie inclinazioni fino al punto da prendere decisioni opposte a quelle dell'illustre genitore.
Quella cosa del cono d'ombra.
Il tutto tra una scazzottata a gravità zero e un'avventura tra le sabbie marziane. Perché la ricerca di se stessi è costellata di fatiche e botte.
Il dubbio però rimane. Va detto che Ad Astra (a parte che non si sarebbe chiamato così ovviamente) senza la fantascienza a fargli da cornice non avrebbe reso altrettanto. Il road movie forse avrebbe obbligato Gray a tenere ritmi un filo più sostenuti, mentre l'ambientazione interstellare lo ha aiutato a dilatare i tempi fino all'ossessione. Ecco, magari la sfilata di volti noti forse se la poteva risparmiare, ma questi sono gusti personali che lasciano il tempo che trovano.
In fin dei conti mi riesce difficile pensare a una storia di questo tipo raccontata fuori dai canoni di un genere introspettivo come pochi altri. Forse la sostanza sarebbe stata la stessa, ma il risultato sull'animo di chi guarda no.
Ve lo posso dire finalmente. A me Ad Astra è piaciuto.



Commenti

  1. A leggere la tua recensione mi viene in mente Passengers, altro film di fantascienza dove la fantascienza potrebbe benissimo non esserci...

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