Motorsport is dangerous- Capitolo2: le maestranze- Kyalami 1977

Gran Premio del Sudafrica, Kyalami, sabato 5 Marzo 1977. Siamo al giro ventidue e Jacques Laffite si prepara ad affrontare la prima curva. Mentre inserisce la vettura, però, qualcuno gli piomba addosso ad alta velocità dopo una manovra che appare scriteriata. La Liger del pilota francese finisce contro il muro esterno e Laffite esce furibondo dall'abitacolo per portare le sue rimostranze allo sconsiderato avversario. Ma quello che vede lo blocca all'istante. Fermo a pochi metri dalla sua monoposto riposa un rottame bianco macchiato di sangue. Il pilota che giace immobile al suo interno è privo di casco e la sua testa è piegata in modo innaturale.
Laffite non lo sa, ma quel rivale non poteva far nulla per evitarlo. Perché a quella prima curva ci è arrivato già morto.
Questa è la storia di uno degli incidenti più assurdi mai avvenuti all'interno di una pista di Formula 1.

Succede tutto una manciata di istanti e pochi metri prima, lungo il rettilineo principale del circuito. Una retta che potremmo definire cieca, perché inizia alla sommità di una collinetta che ne oscura la visuale.
A dare il via agli eventi è la Shadow di Renzo Zorzi. La vettura si arresta sul lato sinistro della pista (quello opposto ai box) vittima di problemi al motore. Quando la macchina è quasi ferma scoppia un timido principio d'incendio. Nulla di particolarmente scenografico, ma negli anni settanta la buona norma suggeriva di non sottovalutare il fuoco.
Il pilota balza fuori dall'abitacolo e si mette ad armeggiare, anche se dalle immagini non si capisce bene con cosa. Una scena pregna di agitazione, forse figlia del fatto che la Shadow è una scuderia piuttosto piccola e Zorzi vuole evitare che la sua monoposto finisca arrostita, che magari gli resta solo quella.
In realtà non sembra una situazione particolarmente pericolosa, anche se l'auto è ferma a pochi centimetri dal tracciato. Ma c'è un problema: nessuno, né prima né dopo l'approccio all'ultima curva, segnala l'anomalia con una bandiera gialla. In buona sostanza i piloti che sopraggiungono non hanno idea di ciò che sta accadendo oltre la collinetta.
Gli anni settanta erano un periodo ruspante per le corse. Qualcuno potrebbe definirlo folle.
Nel frattempo Zorzi è ancora il solo a tentare di far qualcosa per impedire che le piccole fiammelle divampino in un incendio catastrofico. A quanto pare da quel lato della pista non ci sono postazioni per gli addetti.
Di fronte, intanto, si inizia a percepire la foga del pilota italiano e ci si chiede come intervenire. Probabilmente si è convinti che qualcuno in cima stia sventolando grintosamente per avvisare chi sopraggiunge di rallentare. O forse nemmeno ci si pensa.
Fatto sta che due figure armate di estintori da venti chilogrammi ciascuno decidono di rompere gli indugi, compiendo la scelta più sciagurata possibile in tale circostanza.
Questi individui partono, correndo attraverso il tracciato mentre il plotone delle Formula 1 sfreccia a duecentottanta chilometri all'ora.
Uno dei due si chiama Jensen Van Vuuren e ha diciannove anni. Sembra sia li per sostituire un amico e presumibilmente esegue gli ordini del suo capo squadra.
Mentre succede tutto ciò dall'ultima curva esce un trenino di monoposto composto da Hans Stuck, Tom Pryce e dal nostro Laffite. Sono uno in scia all'altro e la loro concentrazione è probabilmente già rivolta alla prima staccata. Pryce, per altro, è in rimonta e dei tre è il più veloce. Una buona frenata lo aiuterebbe a recuperare un'altra posizione.
I tre sormontano la collinetta senza avere idea della presenza di persone in pista. Di fatto Stuck si trova davanti il primo commissario, scarta lievemente (più per istinto che a seguito di una manovra ragionata) e lo evita per pochi centimetri. Pryce però è coperto da lui, visto che lo segue a un'incollatura, e Jensen Van Vuuren proprio non lo vede.
La scena, come si può immaginare, è raccapricciante. L'impatto della Shadow con il ragazzo lancia il povero Van Vuuren in aria facendolo piroettare con una forza tale da spogliarlo.
L'estintore sfugge dalla presa inerme del giovane e finisce, con tutto il suo peso e con la velocità della vettura, dritto sulla testa di Pryce, strappandogli il casco e spezzandogli il collo. La violenza dell'impatto quasi decapita il gallese, mentre il pesante oggetto vola oltre le tribune, finendo per sfondare il tettuccio di un'auto nel parcheggio del circuito.
Il resto della storia è negli occhi sgomenti di Renzo Zorzi che, sconvolto, vede un corpo dilaniato a bordo pista e la Shadow gemella della sua correre priva di controllo lungo il rettilineo.
Difficile capire chi fosse davvero Jensen van Vuuren. Chi dice uno studente olandese, chi un ragazzo del luogo, forse un appassionato che voleva approfittare di un biglietto gratis per godersi uno dei rari spettacoli che il Sudafrica ospitava ai tempi dell'apartheid. Chiunque fosse, comunque, una cosa è certa: non doveva stare li.
Van Vuuren e Tom Pryce sono vittime innocenti del pressapochismo che spesso a quei tempi circondava l'ambiente delle corse. Né Van Vuuren, né probabilmente colui che doveva guidarlo, erano preparati a quell'evento. La stessa direzione corsa, se mai ne fosse esistita una, non è stata capace di gestire in sicurezza una situazione all'apparenza innocua.
Quel sabato 5 Marzo a Kyalami è andata in scena tutta la sciatteria di un mondo arrogante, che in nome della purezza di uno sport all'insegna del rischio estremo, ha permesso che accadesse una tragedia ampiamente evitabile che ha ucciso due persone intente semplicemente a svolgere il proprio lavoro.
Occorreva capire una cosa e sicuramente Bernie Ecclestone, che stava per diventare la grande eminenza grigia della Formula 1, ci era arrivato prima degli altri. Per quanto le corse fossero uno sport pericoloso, certe situazioni non dovevano verificarsi. Mai più.
Invece dopo Kyalami 1977 incidenti simili accaddero ancora. Forse non in Formula 1, disciplina nella quale le maglie della sicurezza restarono allentate ancora per un po' ma ulteriori tragedie analoghe vennero solo sfiorate, però a Vancouver nel 1990, durante un evento Cart, capitò un'altra disgrazia piuttosto famigerata. Le immagini dell'avvenimento mostrano panico e incompetenza nel gestire una situazione perfettamente controllabile, ancora una volta affidata a persone prive della preparazione necessaria ad affrontare l'incarico.
Ma se c'è una cosa che abbiamo imparato è che quando la televisione ti guarda, l'incapacità gestionale non può finire sotto il tappeto della fatalità.
Il tempo ha insegnato che in pista non può andarci nessuno finché la corsa non viene neutralizzata o addirittura sospesa per permettere i soccorsi in sicurezza. E' ancora possibile fare i volontari, ma solo se istruiti attraverso corsi appositi e affiancati a professionisti esperti, preparati ad affrontare le evenienze che si verificano durante una gara.
In Europa e soprattutto in Italia, cultura dell'automobilismo è anche questo. Sicurezza per chiunque, al massimo livello possibile.

Poi però succede che la Formula 1, sempre più assetata di denaro, decida di disertare i circuiti europei per gettarsi tra i deserti di qualche paese esotico, dove di macchine frega niente a nessuno e di cultura delle corse non ne esiste nemmeno tra i libri impolverati.
Capita così di vedere un commissario di percorso attraversare davanti alle monoposto in sfilata dietro la safety car e subito la mente vola a quel giorno del 1977, a Jensen van Vuuren e a Tom Pryce e ti assalgono dei brivdi lungo la schiena che speravi di non sentire più.
Perché alla fine bastano pochi bei soldoni per far riemergere tutto il pressapochismo di un mondo che giurava a se stesso di aver superato la sua fase adolescenziale, capendo che il rischio va bene, ma non se si può evitare.
Pensi che una tragedia come quella di Kyalami dopotutto potrebbe succedere di nuovo e inizi a chiederti se tu quel giorno vorrai essere presente per assistervi.
Occhio Formula 1. Spesso chi gioca per portarsi a casa il banco rischia anche quegli spicci che già possiede. Magari per rendersi conto che, dopotutto, non erano così pochi.
Non è detto che gli appassionati siano disposti a tollerare qualsiasi cosa.






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