CDC #109- Consuntivi: Youth- La Giovinezza (2015)

 C’è una certa dose di autocompiacimento nelle opere di Sorrentino, credo si possa dire senza il rischio di offendere qualcuno. Lo abbiamo visto all’epoca della Grande Bellezza, prodotto costruito a misura di omino dorato, pieno zeppo di belle immagini e praticamente sprovvisto di sceneggiatura. Mi piacque quel film, non dico di no. Pur dovendone sopportare una certa pesantezza di fondo. Una dolenza forzata, lontana, impalpabile. Non l’ho amato alla follia, ma mi sono illuso di capirlo. Ne ho accettato la vischiosità, anche se mi sono ripromesso di non ritornarci su.

Ecco, con Youth le cose sono andate diversamente. Forse meglio.

Ma non più di tanto.



Non so perché un regista affatto anziano come Sorrentino conservi in questa vena nostalgica pulsante dentro di se. Se ci pensate quasi tutti i suoi lavori sono dei giganteschi consuntivi su vite vicine al tramonto. Che si tratti di cantanti a fine carriera, politici prossimi allo scollinamento, o scrittori pigri consapevoli del proprio fallimento, è sempre il momento del resoconto.

Succede anche qui e siamo alle solite. Una fauna di artisti e antichi sportivi filosofeggia coccolata da un resort adagiato nel mezzo delle alpi svizzere. Non certo il cinema operaio di Ken Loach, ma comunque un bel modo di raccontare la vita. Tutti ci appaiono distanti e probabilmente questa è una scelta precisa del regista, che si piace talmente tanto da mettere subito in chiaro che il suo è un cinema che punta in alto.

Non ha bisogno di trame lui, fa tutto con la contemplazione. Immagini che somigliano ai quadri di Caravaggio. Un impatto visivo ad altissima intensità.

Vien voglia di dire che se volessimo vedere tutto questo andremmo al museo e non al cinema. Ma Sorrentino pretende dal pubblico un alto livello culturale, indispensabile per comprendere i suoi riferimenti. Anche se a volte si rende conto della nostra essenza insettoide e ci dona alcune spiegazioni didascaliche.

Magnanimo.


Sostanzialmente abbiamo due ore di riflessioni sulla vita che sfugge via dalle dita. Sulla finzione che essa impone. Sulle illusioni che ne costituiscono le fondamenta.

Il sostegno di un cast che definire stellare a me pare riduttivo pesa molto sul risultato finale. Caine e Keitel sono due anziani distanti anni luce dalle figure retoriche che spesso ci capita di incontrare al cinema. Certo, ci sono rimorsi e rimpianti nelle loro vite, come in quelle di tutti. Ma anche la consapevolezza di essersi realizzati, la pace che spinge fino all’apatia, la soddisfazione. Pure la tragedia, perché un bel drammone non possiamo proprio risparmiarcelo.

C’è una certa voglia di ribaltare alcune convenzioni, come la Miss Universo che si rivela acuta pensatrice, seppur per un solo istante. C’è soprattutto una sorta di ritorno a se stessi, quando si torna a fare ciò che si è amato fare. Siamo ciò che facciamo secondo Sorrentino. Almeno finché raccontiamo le storie di registi, attori, musicisti e calciatori.

Poi c’è anche Rachel Weisz, che qua accende lo schermo come un lampione, alla faccia della freschezza della signorina Universo. Ma questa è un’altra storia.

Non è che si possa dire molto altro di un film costruito per piacere al proprio creatore. Vero, una sceneggiatura un filo più pregna rispetto alla Grande Bellezza ci accompagna piacevolmente tra le pieghe di un’opera nata per essere guardata da lontano. Però siamo li.

Sorrentino ha rinunciato ad ammiccare al pubblico molto tempo fa. Oggi l’unico occhiolino che fa lo concede a se stesso. Se nel frattempo qualcuno lo segue bene, altrimenti fa uguale.

Non una scelta deprecabile, in fin dei conti. 



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