CDC #105- Un'automobile fatta di zucchero: Tucker (1988)
Ah, il mito del sogno
americano! Quell'illusione secondo la quale basta un'idea valida e un
po' di spirito di iniziativa per arrivare ovunque si voglia. Poi c'è
la realtà, fatta di grandi industrie ed enormi interessi, legacci
politici e oligarchie dominanti, che vogliono mantenere lo status quo
schiacciando ogni possibile interferenza a colpi di inganni. Tutto il
mondo è paese, verrebbe da pensare. Anche se in alcuni luoghi è più
paese che in altri, tanto per parafrasare qualcuno di famoso.
Fatto sta che, al cinema,
queste storie dei piccoli e orgogliosi sognatori che combattono
contro i grigi giganti in bombetta piacciono da matti. Come se sulla
collina le cose andassero diversamente.
Preston Tucker ideò
un'auto geniale, avanti anni luce sulla concorrenza e dotata di
dispositivi che anticipavano di decine d'anni gli standard. Gli
mancavano solo una fabbrica e dei soldi per dar vita al suo progetto.
Con la faccia di Jeff
Bridges, Preston Tucker è il tipico personaggio per il quale non si
può fare a meno di fare il tifo. Pieno di entusiasmo contagioso, una
famiglia Bradford che lo ricopre di fiducia, un figlio uguale a
Christian Slater da giovane che vuole seguirne le orme, dodici cani e
una squadra di tecnici eccezionali disposti persino a lavorare gratis
pur di vedere la favolosa Tucker Torpedo solcare le strade d'America.
Insomma, si intuisce
vagamente l'intenzione di trasformare quest'uomo in una sorta di
figura perfetta e senza macchia, in modo da rendere più potente il
confronto con l'oscuro mondo industrial-finanziario dominato da
Detroit e appoggiato dai politici.
Nessuno si arrabbia mai
nella casa della prateria. Sono tutti così buoni. E bravi. Persino
il corrotto banchiere che arriva da New York finisce per sciogliersi
in questa soluzione di acqua zuccherata, dimenticando le sue antiche
nefandezze per abbracciare il grande sogno americano di Tucker.
Quanta bontà, per dio.
Un peccato, in realtà,
che questa vicenda sia violentata in questo modo dal gusto per il
dolce di George Lucas, perché, dal punto di vista estetico, l'opera
di Francis Ford Coppola pare girata negli anni duemila tanto è
moderna la sua messa in scena.
Certo, i colori spesso
virano sul pastello in sintonia con l'atmosfera generale. Ma il
momento noir dell'incontro con Huges ci riporta in quegli anni
quaranta ben resi dalla ricostruzione storica, anche se la stessa
soffre di un'impostazione simil- Happy Days che contribuisce
all'aspetto favolistico di tutto il baraccone.
C'è, insomma, una sorta
di dualismo Coppola- Lucas, con il primo che tenta di costruire
cinema sopra una sceneggiatura appiccicaticcia e il secondo ormai
perduto dentro il suo mondo fatto di principessine, orsetti e navine
spaziali.
A noi spettatori rimane
l'immagine soverchiante di un Jeff Bridges che domina la scena, il
piacere di ritrovare Martin Landau e i primi sintomi riconducibili al
diabete.
Che siate o meno fan di
Francis Ford Coppola, evitando di sorbirvi la favola tenera di Tucker
non rischiate di perdervi qualcosa di clamoroso. Dopotutto è la
solita menata americana sulla lotta tra il piccolo e il potente, con
la vittoria morale che va al coraggioso imprenditore, ma quella
economica che arride alle grandi imprese di Detroit, che, in fin dei
conti, distruggono le idee innovative di Tucker, portandogli via
fabbrica, investimenti e tutto quanto. Ma tanto qui non si incazza
nessuno.
Vi assicuro che assistere
all'ultima scena con Bridges che si infatua di un refrigeratore e
tutti in macchina che urlano felici uau si riparte, è stato uno dei
momenti peggiori di questo isolamento.
Inutili dosi di caramello
che odorano di muffa, soprattutto pensando al rapporto che Lucas ha
instaurato con il ratto.
Perché i giganti sono il
male, vero George?
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