Storia di un amore grande.
L'amore è un sentimento strano, capace
di regalare emozioni laceranti e di indirizzare le azioni di chi ne
rimane sopraffatto. Qualcosa di troppo complesso per essere
sintetizzato scartando un cioccolatino.
Tutti ci siamo passati. Quante
peripezie e quante porte in faccia. Quanto tempo passato sospesi tra
la brama e il desiderio. Quante volte siamo stati travolti da tutto
questo rigurgito di arcobaleni. Persino io ho avuto alcuni momenti
nei quali il treno dei cuoricini mi è passato sopra senza pietà. E
il più delle volte ho patito come un cane. Eppure, talvolta, le cose
addirittura funzionano.
Visto che son di strada e bello caldo,
approfitto dell'occasione per narrarvi proprio uno di questi episodi.
Preparate i fazzoletti.
Come spesso accade in questi casi,
tutto iniziò durante una calda sera d'estate, quando la luce dura
fino a tardi e il mondo sembra disposto ad esaudire ogni desiderio.
Una Notte Magica insomma.
E io, ancora così ingenuo da rimanere
ignaro dell'incantesimo che gravava su di me, assaporavo i sapori
della bella stagione. Poi successe questo:
In effetti vi ho gabbato. Questa storia
non parla di quell'amore romantico strappacuori, quanto piuttosto
dell'infatuazione verso il Gioco, inteso nella sua forma più pura (e
qui i più puccettosi avranno già chiuso). Tutti i ragazzini con la
sindrome dell'eroe (tutti i ragazzini in generale, inutile girarci
intorno) hanno sognato di realizzare un gol così e far vincere la
nazionale. Per me quello era il segno più eclatante che la magia
esisteva e si poteva trovare nel calcio. E mi innamorai (in senso
lato, sono piuttosto sicuro della mia eterosessualità) di quel
giocatore.
Ci sono arrivato tardi, lo ammetto. La
mia scarsa cultura sull'argomento mi ha portato a ignorare quello
strano esodo di coetanei, disposti a rinnegare fedi e anni di
insegnamenti paterni, per abbracciare la viola. Quindi Baggio, prima
di quella notte, per me rappresentava solo un nome.
Quell'azione mi aprì un universo
inesplorato e ancora oggi carico di suggestioni. Intendiamoci, Baggio
non è stato il più grande di tutti. Ma ha giganteggiato nel periodo
più difficile per quelli come lui. Quegli anni novanta impregnati di
tatticismo post sacchiano dove non c'era più spazio per i grandi
numeri dieci e non ci si sentiva ancora pronti all'esplosione delle
mezze punte (o falsi nueve, tanto per non farci mancare la
definizione idiota).
Ha cambiato tante squadre Baggio,
finendo a giocare persino nei Signori Del Male e nella Temibile
Armata Dei Meganoidi. Forse proprio per questo non poteva essere una
passione privata, come sognare una ragazza di Non E' La Rai (la mia
era Ilaria Galassi, anche se col tempo ho capito che avrei dovuto
puntare sull'eleganza ineguagliabile di Mary Patty) nel segreto di
una cameretta con il fazzoletto a portata di mano.
Dicevi Maradona e pensavi al Napoli.
Associavi Van Basten al Milan e Platini alla Juventus. Baggio,
invece, apparteneva a tutti. Chiunque lo vedesse giocare si
predisponeva ad accettare anche un gol subito, purché a segnarlo
fosse lui. Un'ammirazione senza barriere che ha consentito al
solitamente polemico popolo italico di perdonargli un rigore
sbagliato in una finale alla quale accedemmo grazie alle sue magie.
Si dice che fosse difficile da gestire,
con la sua classe sempre al servizio del pallone e mai degli schemi.
Le malelingue sussurrano che gli allenatori fossero gelosi di lui,
dato che in quel momento iniziavano a godere di una popolarità che
lo scomodo numero dieci offuscava solo presenziando in uno
spogliatoio.
Eppure tutto questo non è mai contato
nulla. Lui le magie le mostrava nei campi pieni di buche del suo
tempo. Fuori quasi scompariva. Il gossip non lo riguardava, nemmeno
quando i giornalisti si ossessionavano con la sua fede buddista. Il
contrario di molti campioni odierni, spesso più presenti su Instagram
quando c'è da mostrare il tatuaggetto, piuttosto che disposti a
smazzarsi sul rettangolo verde.
Un atteggiamento che mi manca. Il vero
potere del Gioco incarnato nelle fattezze di un unico numero dieci.
Un uomo di 50 anni che per me ne avrà sempre la metà. Uno di quei
pochi rimasti nella mia memoria dei quali posso dire: ok, questo è
il calcio.
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